UNIVERSITÀ E SCUOLA

Europa a due velocità? Per gli atenei già esiste

Cinque anni di crisi economica hanno lasciato il segno, in tutta Europa, sui sistemi universitari nazionali: tagli e difficoltà hanno caratterizzato tutti gli Stati del continente. Ma le scelte dei singoli governi sulle politiche di finanziamento pubbliche alle università sono state radicalmente diverse. Con buona approssimazione, i Paesi europei si sono divisi in due blocchi: quello del Nord-Ovest ha reagito alla crisi aumentando gli investimenti pubblici agli atenei, a volte in modo sostanziale. Quello del Sud-Est, invece, ha effettuato decurtazioni del budget che, in alcuni casi, costituiscono vere e proprie smobilitazioni del sistema statale di istruzione superiore. Non è difficile indovinare a quale dei due gruppi appartenga l'Italia; meno semplice è immaginare quanto drastica sia stata, nel nostro Paese, la riduzione delle risorse pubbliche per il funzionamento delle università. A far luce sul "doppio binario" delle politiche di finanza pubblica a beneficio del sistema accademico è una ricerca della European University Association, che raggruppa atenei di 47 nazioni. Dai dati Eua emerge un quadro di inattesi contrasti: considerando il periodo 2008 - 2012, su 20 entità considerate (per il Belgio è valutata la parte francofona, mentre i dati del Regno Unito non comprendono la Scozia), sette hanno incrementato il totale delle risorse statali per l'università: tra gli aumenti maggiori (superiori al 10%), quelli di Norvegia, Svezia e Germania. Del gruppo con segno positivo fanno parte anche Austria, Belgio francofono, Paesi Bassi e Francia. Il gruppo dei "cattivi", invece, è interamente composto da Stati del "blocco sudorientale", con l'eccezione dei due Paesi del Nord travolti dalla crisi negli anni passati, Irlanda e Islanda, e perciò arruolati d’ufficio tra i “Pigs accademici” (per riprendere l’epiteto con cui alcuni economisti bollavano gli Stati più colpiti dalla crisi). Tra i "cattivi" in realtà c’è una terza eccezione, il Regno Unito (Scozia esclusa), il cui dato però deve tenere conto di una tendenza politica consolidata verso la progressiva riduzione del contributo statale attraverso un notevole aumento della contribuzione studentesca. Riassumendo, il segno negativo sul finanziamento pubblico agli atenei riguarda, in misura lieve o media (tagli di non oltre il 10%) Croazia, Polonia, Portogallo, Slovacchia. In fondo alla graduatoria, invece, ci sono i "magnifici nove" delle forbici alla spesa pubblica universitaria: le nazioni che hanno ridotto le risorse di oltre il 10% nel periodo considerato. Come si accennava, oltre a Irlanda e Islanda, del gruppo fanno parte Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria, Lituania e, a parte il Regno Unito, due soli grandi Paesi: la Spagna e l'Italia. Una precisazione importante: tutti questi dati sono al netto del tasso nazionale d'inflazione, ossia riflettono il reale maggiore o minor valore delle risorse messe a disposizione del sistema universitario. 

L'altro indicatore preso in considerazione dalla Eua è un tradizionale parametro con cui si valuta quanto uno Stato investe in una specifica voce di finanza pubblica: la percentuale del Pil impiegata, nel periodo 2008 – 2013, nelle risorse per il sistema universitario. Anche in questo caso, su 18 Stati analizzati, emerge la divisione nei due blocchi geopolitici, ma con eccezioni più vistose: nel gruppo di coloro che hanno incrementato la quota di Pil ci sono Austria, Francia, Germania, Paesi Bassi, Svezia, ma anche Croazia, Polonia, Islanda. Sembra quindi che alcuni Paesi, pur alle prese con un’austerità generalizzata, abbiano deciso di concentrare risorse proprio nell’istruzione pubblica. E tra quanti hanno diminuito la quota di Pil dedicata a educazione e ricerca vi sono sì Repubblica Ceca, Grecia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Portogallo, Slovacchia e, purtroppo, Italia, ma anche la Norvegia, che “sconta” forse l’espansione del suo Pil negli ultimi trimestri, in controtendenza con la maggior parte dell’Europa. 

Il rapporto Eua si sofferma a valutare i settori del mondo universitario più colpiti dai tagli: vengono citate soprattutto la contrazione delle assunzioni, le infrastrutture e la ricerca, aspetto quest’ultimo che affligge in modo particolare l’Italia. Tra le conseguenze dei minori investimenti, la corsa degli atenei ai finanziamenti europei (fondi strutturali o programmi di ricerca) e l’incremento della contribuzione studentesca (si menziona l’abolizione dei tetti di spesa per gli studenti italiani fuori corso): ma anche su questo molti Paesi agiscono in senso contrario e riducono le tasse per gli iscritti, come è avvenuto in Germania. Interessante, infine, l’analisi del rapporto tra maggiori o minori investimenti e numero di iscritti agli atenei nazionali: la Eua nota anzitutto che nel periodo 2008 – 2011 c’è stata una tendenza media all’aumento della popolazione studentesca; sottolinea poi come i dati non dimostrino una correlazione univoca tra spesa pubblica e iscritti, dal momento che a una diminuzione delle risorse per gli atenei corrisponde spesso un aumento della popolazione studentesca. Gli effetti quantitativi si sentiranno forse sul medio termine ma l’impoverimento qualitativo del sistema universitario, per chi non investe, è palese. Quanto all’Italia, tra i 17 Paesi considerati, si colloca nel gruppo dei soli quattro (insieme a Lettonia, Polonia, Slovacchia) che hanno registrato una diminuzione di iscritti nel periodo analizzato. Al nuovo governo, si spera, il compito di invertire la tendenza.

Martino Periti

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