SCIENZA E RICERCA

Homo sapiens, la scimmia che corre più dei cavalli

Chissà quante discussioni da bar si saranno consumate nell’immaginare se un uomo possa saltare più in alto di una tigre oppure correre più veloce di un cane o sfidare altri animali in qualsivoglia prova di abilità fisica. L’intuito e l’osservazione sono più che sufficienti, nella maggior parte dei casi, a far notare come su prove di velocità, balzi, scatti, nuoto, forza fisica e arrampicata esistano centinaia di specie animali ben superiori all’uomo. Vi è però un ambito particolare dove anche la specie umana, tradizionalmente considerata “pigra” e poco dotata fisicamente, sembrerebbe farsi valere: è quello delle prove di resistenza, in particolare della corsa su lunghe distanze. A un primo sguardo, infatti, dovendosi misurare su distanze di poche centinaia di metri, lo slanciato bipede umano sembrerebbe naturalmente destinato a soccombere rispetto a tanti muscolari quadrupedi dallo scatto fulmineo, tanto possibili prede quanto predatori. 

Qualcosa però cambia quando le distanze si allungano e la sfida viene posta su percorsi di decine di chilometri. Qui è anche l’anatomia umana a spiegare il progressivo annullamento del vantaggio animale. Secondo uno studio del 2004, realizzato dall’antropologo Daniel Lieberman (Harvard university) e dal biologo Dennis Bramble (università dello Utah), due milioni di anni di evoluzione umana sono serviti a determinare una fisiologia che ci rende estremamente competitivi nel percorrere a piedi lunghe distanze. Come spiegano i due studiosi, le gambe umane sono un concentrato di meccanismi finalizzati alla massima elasticità, economia di sforzo e resistenza, e hanno nel tendine d’Achille il loro punto di forza. Il tendine di Achille è infatti breve o assente nelle grandi scimmie e non era presente nei precursori dell’Homo sapiens, come per esempio l’australopiteco. I modelli scientifici più recenti suggeriscono che l'energia accumulata nel tendine aumenti la velocità di marcia di più dell'80% e riduca di oltre tre quarti i costi energetici della corsa. Nelle scimmie africane è infatti proprio la mancanza di un tendine d'Achille ben sviluppato a precludere loro la possibilità di correre su lunghe distanze a velocità sostenuta. L’uomo ha gambe larghe e forti e glutei muscolosi, e il tronco “rotante” permette di avere più stabilita nella corsa e nella camminata e di distribuire meglio i carichi e gli sforzi. Gli esseri umani hanno anche fibre muscolari naturalmente predisposte agli sforzi duraturi, a differenza di molti altri mammiferi che hanno subito un’evoluzione più concentrata sulla velocità pura, nella necessità di catturare prede in fuga o di sfuggire loro stessi dai predatori. 

La caratteristica forse decisiva, però, è quella di essere delle "scimmie nude" e quindi di avere un’inarrivabile capacità di dissipazione del calore. Il limite di molte specie è proprio quello di doversi fermare dopo sforzi prolungati a causa dell’eccesso di calore prodotto dallo sforzo. I nostri principali “rivali” sulle lunghe distanze, cioè animali come cavalli, gnu, cani, lupi e iene sono capaci di correre ben più velocemente di noi anche per chilometri. Ma a un certo punto devono inevitabilmente fermarsi per prendere fiato. Cani di media taglia possono correre per 10-15 minuti a velocità quasi doppia rispetto all’uomo ma poi devono fermarsi ansimanti per espellere il calore attraverso il respiro. In questo continuo stop-and-go, la velocità media di un cane scende a circa 4 metri al secondo su distanze attorno ai 40 chilometri, una media decisamente inferiore a quella di un maratoneta di alto livello, che su lunghe distanze può correre a una media di 6,5 metri al secondo. Certo, molto dipende dalle condizioni climatiche: i climi freddi aiutano gli animali che hanno più difficoltà a espellere calore, mentre temperature più elevate avvantaggiano la fisiologia umana. Un esempio è dato dai cani husky, incrocio di lupo e cane, capaci nei climi artici di coprire sotto sforzo anche cento chilometri, circostanza impossibile in ambienti appena più temperati. 

Tenendo conto di queste considerazioni, l’unico rivale terrestre dell’uomo nelle corse lunghe sarebbe il cavallo, accreditato (con fantino in sella), di medie attorno ai 6 metri al secondo. Non stupisce quindi che in Galles esista da oltre 25 anni la maratona “uomo contro cavallo”. Organizzata ogni giugno tra le fresche colline britanniche, la corsa si disputa su una distanza di 22 miglia (circa 35 chilometri) e ogni anno accoglie un sempre maggior numero di partecipanti e curiosi. Qui, il dato interessante è che l’uomo abbia vinto in appena due occasioni, nel 2004 e nel 2007. La spiegazione è data dal clima fresco, umido, spesso piovoso, che non affatica eccessivamente i cavalli. E anche dal fatto che la corsa, per molti anni vissuta alla stregua di festa paesana, non ha mai attirato fondisti di altissimo livello, che avrebbero certamente garantito prestazioni migliori. Infine, la distanza è ancora un buon compromesso per le caratteristiche di uomini e cavalli. In una gara simile, organizzata in Arizona, dove la distanza è di ben 50 miglia, ovvero più di 80 chilometri, le vittorie umane sono state ben più frequenti. 

Secondo Lieberman e Bramble, anche questa abilità umana ha una spiegazione evolutiva, e deriva dalla tecnica di “caccia persistente” che l’Homo Sapiens metteva in pratica per riuscire a procacciarsi il cibo nelle decine e decine di migliaia di migliaia di anni (la gran parte delle sua storia) in cui visse da cacciatore e raccoglitore. È vero che l’uomo disponeva già di rudimentali strumenti d’offesa, ma spesso questi non bastavano per conquistare il cibo. Conscio di essere meno rapido di tanti altri rivali, l’uomo seguiva per chilometri e chilometri le prede potenziali e agiva sempre di giorno, spesso sotto un caldo cocente, sapendo che altri predatori avrebbero atteso il fresco per entrare in azione. Alla fine, le prede cedevano e la cena era assicurata.

Marco Morini

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