SOCIETÀ

L’infanzia negata. I bambini che lavorano sono 168 milioni

Kailash Satyarthi: il nome di questo sessantenne hindu era quasi sconosciuto al grande pubblico occidentale fino a poche settimane fa, quando è stato insignito del premio Nobel per la pace assieme alla molto più nota Malala Yousafzay, la ragazzina pakistana vittima di minacce e attentati dagli integralisti per aver rivendicato il suo diritto alla scuola. Ma è il nome di una persona che, lontano dai riflettori e con un impegno instancabile ispirato agli ideali e ai metodi di Gandhi, è riuscito negli anni con la sua ONG a sottrarre alla schiavitù della povertà e del lavoro minorile più di 80.000 bambini. E proprio la condizione dei bambini in tantissimi luoghi al mondo, il loro diritto negato a una infanzia libera da privazioni e sfruttamento è il filo rosso che collega i due attivisti: una condizione troppo spesso dimenticata, e che il comitato dei "saggi" di Oslo ha voluto mettere in evidenza con l'assegnazione del premio.

“Continuano a essere intrappolati in condizioni di servitù domestica in Venezuela, vengono impiegati nel servizio militare in Eritrea e nei campi di cotone in Uzbekistan. Il 10% dei bambini nel mondo è costretto a lavorare”, scrive Mark Anderson su The Guardian, in un articolo pubblicato nell’ottobre scorso. “Circa il 40% dei 140 Paesi presi in esame non sta facendo abbastanza per proteggerli contrastando il lavoro minorile”. Anderson cita il rapporto pubblicato dal Us department of labor, che parla di 168 milioni di bambini nel mondo costretti a lavorare. Un numero che colpisce e che è stato confermato da Every child counts, rapporto Unicef 2014, e Making progress against child labour (global estimates and trends 2000-2012) dell’Ilo, Organizzazione internazionale del lavoro. Eppure, a ben guardare, questa potrebbe essere considerata una buona notizia perché, in tutto il mondo, il numero di minori che lavorano sarebbe diminuito di un terzo dal 2000, passando da 246 a 168 milioni. E quelli che eseguono lavori pericolosi da 171 milioni a 85. 

Per lavoro minorile si intende quello svolto al di sotto dell’età legale di ammissione all’impiego, stabilita dalla Convenzione dell’Ilo sull’età minima del 1973 (n.138) e dalla Convenzione sulle peggiori forme di lavoro minorile del 1999 (n.182). Il peso e le conseguenze di questo fenomeno sono ben sintetizzate in una nota dell’Ilo, che così lo definisce: “Il lavoro minorile priva le bambine e i bambini della loro infanzia, del loro potenziale e della loro dignità, e pregiudica il loro sviluppo fisico e morale”. Il fenomeno è diffuso nei Paesi e nelle fasce di popolazione più svantaggiati, dove spesso non vengono messe in campo azioni di sostegno per il superamento delle condizioni di povertà: secondo il rapporto sulla sicurezza sociale 2014/2015, oltre il 70% della popolazione mondiale non riceve una adeguata protezione sociale. Il rapporto dimostra che, a livello mondiale, i governi dedicano solo lo 0,4% del Pil alle prestazioni per i bambini e per le famiglie – si legge - con differenze che vanno dal 2,2% in Europa occidentale allo 0,2% in Africa e nella regione asiatica e del Pacifico. Questi investimenti andrebbero aumentati, se si considera che circa 18.000 bambini sotto i cinque anni muoiono ogni giorno (tra le cause principali, l’Unicef segnala malattie come polio, tetano, morbillo, Ndr) e che molte di queste morti potrebbero essere evitate con una adeguata protezione sociale.

Il Nobel per la Pace 2014 apre la strada al cambiamento. I due attivisti premiati si battono, infatti, per difendere i diritti dei bambini, contro le violenze e lo sfruttamento. Ma la realtà è che ancora oggi, nel mondo, i bambini vengono impiegati in lavori agricoli pericolosi, nelle cave di pietra, nella tessitura di tappeti o nel lavoro domestico. “Alcuni sono tenuti in condizioni di lavoro forzato - scrive Anderson nel suo articolo - o costretti a servire in conflitti armati o traffici di droghe illegali. Altri sono vittime della tratta a scopi commerciali. L'utilizzo dei bambini soldato, poi, è un problema nell’Africa sub-sahariana e nel Medio Oriente, con i governi della Repubblica democratica del Congo, di Somalia e Sud Sudan impegnati a reclutare bambini per i loro eserciti. Il Mali e il Ruanda finanziano gruppi armati che sono noti per lo sfruttamento di combattenti bambini. E bambini soldato si possono trovare in Iraq, Palestina e Yemen”. È del 2000 il Protocollo opzionale alla convezione sui diritti dell’infanzia relativo al coinvolgimento dei bambini nei conflitti armati che aumenta l'età minima per la partecipazione diretta agli scontri a fuoco dai 15 ai 18 anni (articolo 1) e vieta il servizio di leva o il reclutamento forzato al di sotto dei 18 anni(articolo 2). Un protocollo che però, ad oggi, non è riuscito a cancellare un fenomeno che richiede interventi sempre più efficaci, partendo da maggiori investimenti nel campo dell’educazione e dello studio, diritti fondamentali dei bambini. Secondo l’Ilo, i minori che lavorano sono più numerosi in Asia e nel Pacifico (quasi 78 milioni), mentre la più alta incidenza di bambini impiegati in lavori pericolosi, rispetto al totale dei minori, si registra nell’Africa sub-sahariana. Nell’ottobre scorso, a Lima, in Perù, venticinque Paesi di America Latina e Caraibi - dove oggi si contano 13 milioni di minori che lavorano - si sono impegnati a sradicare il lavoro minorile da qui al 2020. 

A livello europeo le informazioni appaiono frammentarie, ma neppure il nostro continente, e il nostro stesso Paese, sono liberi da questi problemi. Un quadro della situazione italiana viene proposto da una recente indagine sul lavoro minorile e il circuito della giustizia penale di Save the children: “Una larga parte dei minori che al momento sta scontando una condanna penale ha alle spalle mesi o anni di lavoro svolto sotto i 16 anni. Una quota significativa di essi ha lavorato addirittura a 11-12 anni e in condizioni di grave sfruttamento e pericolo, per tante ore di seguito e di notte, fuori della cerchia familiare. Ristorazione, vendita, edilizia, agricoltura e allevamento, meccanica alcuni dei principali settori di impiego di questi giovanissimi. Esperienze di lavoro minorile tra le più dure, sommerse e molto spesso collegate all’abbandono della scuola, quelle dell’universo degli adolescenti in carico alla giustizia minorile. Si tratta di un sottoinsieme dell’intero universo di lavoratori under 16 che nel nostro Paese conta circa 260.000 ragazzi e ragazze tra i 7 e i 15 anni, pari al 7% della popolazione in questa fascia di età, 1 minore su 20”. 

A integrare questa indagine, fornendo ulteriori spunti di riflessione, è l’ultimo rapporto sui minori stranieri non accompagnati, diffuso dal ministero del lavoro e delle politiche sociali, aggiornato al 30 settembre 2014: dall’inizio del 2014 i minori non accompagnati arrivati in Italia (in particolare sulle coste siciliane) dal nord Africa - un gran numero da Egitto ed Eritrea - sono stati 12.164. Di questi 3.163 non si trovano più. Che fine hanno fatto? Dove sono? Con buona probabilità sono stati rapiti e coinvolti in giri di sfruttamento sessuale e lavoro minorile. A scriverne anche Luca Muzi, sempre su The Guardian: “I bambini che sono registrati come minori non accompagnati, al momento dell'arrivo in Italia, sono anche vulnerabili allo sfruttamento. Secondo la legge italiana, quelli che arrivano senza la loro famiglia dovrebbero passare automaticamente sotto la cura dello Stato. Dovrebbero, in primo luogo, essere alloggiati in rifugi di emergenza per poi essere inseriti nei programmi di integrazione e formazione scolastica. Tuttavia, in Sicilia, sotto il peso dell’afflusso di migranti, i bambini vengono lasciati per mesi in rifugi sovraffollati, con scarsa tutela”.

F.Boc.

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