CULTURA
La custode di libri di Sophie Divry
Sembra che alcuni scrittori francesi abbiano un innato talento da oratori, che trasferiscono sulla pagina scritta facendo parlare (o pensare) i loro personaggi a ruota libera. E la cosa bella è che per lo più fanno dire loro cose colte e intelligenti. Vengono in mente le discettazioni della portinaia filosofa de “L’eleganza del riccio” di Muriel Barbery, oppure i saggi di Pennac in cui l’autore parla, per esempio, del piacere di leggere (“Il verbo leggere non sopporta l'imperativo, avversione che condivide con alcuni altri verbi: il verbo 'amare', il verbo 'sognare' […]” è l’incipit di “Come un romanzo”).
Se quest’ultimo tema fosse l’oggetto di una competizione, avrebbe però la meglio Sophie Divry, trentenne di Lione al suo primo romanzo: La custode di libri (Einaudi, 2012). Mette infatti in scena un monologo di 65 pagine di una bibliotecaria frustrata, che lavora al reparto geografia del piano interrato di una biblioteca di un paesino sperduto. Non è laureata, si è trasferita da Parigi per amore di un uomo che l’ha lasciata per mettersi con “un’ingegnera” nucleare, è impiegata ai codici 900 e 910 del sistema di catalogazione Dewey, ossia al settore geografia quando invece è appassionata di storia e, non bastasse, è innamorata di un ricercatore che studia in biblioteca che non la calcola minimamente.
Questa Bridget Jones dei libri sceglie di importunare un malcapitato avventore che ha trascorso la notte in biblioteca, forse un vagabondo (nulla di lui viene detto), rovesciandogli addosso tutto quello che pensa del suo lavoro (“Dewey è un po’ il Mendelev dei bibliotecari”), di chi la ha costretta ad una vita nel sottosuolo (“gli architetti non pensano mai a niente, del resto”), dell’amore (“è stato in quel momento che mi sono resa conto di quanto la sua nuca mi avesse soggiogata”), della letteratura (“cosa può produrre dal punto di vista letterario una società in cui non ci sono più guerre, né epidemie, né rivoluzioni?”) e chi più ne ha più ne metta.
L’ironia è la chiave del suo monologare, che in realtà è però amaro, perché dipinge una realtà lavorativa, sociale e culturale deprimente, che è la nostra. “Il fatto è che la gente è sola, terribilmente sola. Leggere è un pretesto. Una messinscena. La gente viene qui a cercare qualcosa cui aggrapparsi”. Lei per prima, che appena ha trovato (fuori dalle ore di silenzio di cui vive una biblioteca) un interlocutore con cui sfogarsi ne ha approfittato per raccontargli l’intero suo pensiero. La dimensione del linguaggio parlato permette all’autrice di saltare da un argomento all’altro, ma con tale fluidità e tensione, che il lettore resta incollato, quasi fosse lui il malcapitato vagabondo che non riesce ad interrompere il monologo della bibliotecaria perché lei non tira mai il fiato. La finzione linguistica permette all’autrice poi, perfino di spingersi nel “politically incorrect”: “Ma cosa crede, li conosco i suoi argomenti, caro ministro: fare della mediateca un luogo di piacere, di convivialità […]. La cultura non è un piacere. La cultura è uno sforzo permanente dell’essere per sfuggire alla propria vile condizione di primate non civilizzato. Guardi, prendono in prestito solo divudì, solo divudì.” Riflettiamoci.
Valentina Berengo