SOCIETÀ

La staffetta generazionale procede a marcia indietro

Prodotto in calo (-2,4%), consumi in crollo (-4,3%), povertà che aumenta (un terzo delle famiglie interessato da “deprivazione materiale”). Un paese stremato. Nel quadro assai fosco che l'Istat dipinge nel suo Rapporto annuale 2013, merita come sempre un focus particolare il capitolo sui giovani. Perché ancora adesso, al sesto anno della crisi, i più giovani si confermano come la prima linea della grande guerra della recessione. E perché proprio al piano-giovani, nelle sue prime esternazioni da ministro del lavoro, l'ex presidente dell'Istat Enrico Giovannini ha detto di voler mettere mano.

Anche a questo, del resto, ci obbliga l'Europa. Il Rapporto ricorda infatti che il Consiglio europeo ha di recente incluso tra gli obiettivi 2020 un nuovo target: il tasso di occupazione dei 20-34enni diplomati e laureati deve salire, entro sette anni, all'82%. Adesso è fermo al 57,6%: siamo lontani di quasi 25 punti percentuali, laddove nella media europea attuale già si attestano al 71,4%.

Ma prima di proiettarci verso il vicino (ma lontanissimo) 2020, vediamo cosa è successo nel recente passato, nei numeri Istat. La crisi prima ha buttato fuori dal mercato del lavoro i più giovani, esposti alle intemperie con i loro contratti mobili; e poi ne ha ridotto fortemente le opportunità di re-impiego. Tra il 2008 e il 2012, registra l'Istat, gli occupati 15-29enni sono diminuiti di 727.000 unità. Solo nell'ultimo anno, abbiamo avuto 132.000 occupati giovani in meno, laddove la riduzione totale degli occupati, se si guarda a tutte le fasce di età, è stata di 69.000 unità: effetto plastico di una staffetta generazionale mancata, anzi invertita, con molti “anziani” rimasti a lavorare più a lungo, anche per effetto della riforma Fornero, e porte chiuse per i “ragazzi”.

Guardando a tutto il periodo, dall'inizio della crisi al 2012, si nota che il tasso di occupazione giovanile – 15-29 anni – è sceso di 7 punti percentuali, al 32,5%; mentre quello dei 30-49enni è sceso di 3 punti (al 72,7%) e quello per salire invece di 4 punti (al 51,3%) nella fascia d’età 50-64 anni. Più noti, perché già ampiamente pubblicizzati al rilascio delle statistiche mensili, i dati sul tasso di disoccupazione: la percentuale dei giovani (15-29 anni, in questo caso) che cercano lavoro e non lo trovano è salita al 25,2% nella media italiana, al 37,3% nel Mezzogiorno. Chiude il triste rosario dei dati giovanili il fenomeno Neet, ossia i 15-29enni che non lavorano né studiano né sono in formazione: due milioni e 250mila giovani, in crescita soprattutto al Centro-Nord ma con enorme massa critica al Sud (dove è Neet un giovane su 3).

Il fenomeno Neet preoccupa, sia per la sua concentrazione geografica che per le prospettive. Ma il percorso per ripescarli dall'inattività non è semplice, non basta metterli tra i banchi per far prendere loro un qualche diploma (ammesso che ci si possa riuscire). Infatti, se si vanno a scomporre i dati sull'occupazione, ne viene fuori un problema specifico dei diplomati italiani. Il gap nel nostro tasso di occupazione giovanile infatti riguarda tutti, sia diplomati che laureati; ma è molto più forte per i primi. A tre anni dal diploma, in Italia è occupato un diplomato su 2, in Europa due su tre: e in Germania, paese dove funziona molto bene la formazione professionale e l'apprendistato, sono occupati otto neodiplomati ogni 10.

Tra il 2006 e il 2011, scrive l'Istat, la differenza tra il tasso di occupazione medio europeo e quello italiano per i giovani diplomati da non più di tre anni è raddoppiato (da 10,2 a 20,8 punti di differenza), mentre quello dei laureati è cresciuto meno, da 15,2 a 16,5 punti di differenza. Insomma, c'è un problema specifico dei nostri diplomi, che da soli contano sempre meno, mentre tutto sommato “la laurea protegge di più dagli eventi negativi del mercato del lavoro”. E anche quando lavorano, i nostri diplomati se la passano maluccio, poiché nel 58,4% dei casi lavorano in mansioni inferiori a quelle per cui hanno studiato. Infine – dato preoccupante, per chi ha a cuore la mobilità sociale e vorrebbe rispettare l'art. 3 della nostra Costituzione, quello sull'eguaglianza sostanziale – la crisi dei mercati di sbocco per i diplomati accentua il ruolo della estrazione sociale: a parità di formazione, trova più facilmente lavoro e buone retribuzioni chi viene da classi sociali più alte (borghesia o classe media). Quanto ai laureati, anche in questo caso il peso del background resta importante, soprattutto per i canali di accesso al lavoro; ma aiuta anche la mobilità geografica: i laureati che per lavorare si sono trasferiti in un'altra città, scrive l'Istat nel capitolo sulle transizioni scuola-lavoro, a parità di altre condizioni guadagnano di più degli altri.

Roberta Carlini

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