SCIENZA E RICERCA

Mai parlato col vostro cane? Provateci

Della giornalista statunitense Susan Orlean in Italia è arrivato solo un libro, Il ladro di orchidee (Rizzoli 2000), da cui Spike Jonze, il regista di Essere John Malkovich, ha poi tratto un film singolarissimo che, a dispetto della presenza nel cast di Nicolas Cage e Meryl Streep, ben pochi hanno visto da noi. Ma negli Stati Uniti Orlean – dal '92 staff writer del “New Yorker” – è una firma nota e autorevole. Con sorpresa, quindi, è stata accolta la decisione della giornalista di prendere come soggetto del suo ultimo libro, pubblicato lo scorso anno da Simon & Schuster, un cane, sia pure una celebrità del mondo canino, come Rin Tin Tin. “Ho dovuto sopportare una dose massiccia di prese in giro, sguardi vacui e bocche spalancate, quando dicevo in giro che stavo scrivendo di un cane”, ha dichiarato Orlean in un articolo uscito giorni fa sul “New York Times”, in occasione dell'uscita in formato tascabile di Rin Tin Tin. The Life and the Legend (un vero, anche se non inatteso, bestseller). “Credo – ha notato ancora la giornalista – che la gente metta gli animali su un livello lievemente minore di serietà... Dire 'Ho scritto una bellissima poesia su un cane' o 'Ho dipinto uno splendido ritratto di un cane' suona sciocco. Ed è quello che mi attira, cercare di sorprendere le persone convinte che un certo tema sia irrilevante”.

Che il rapporto fra gli umani e le altre specie sia tutt'altro che irrilevante, è in realtà un dato più o meno acquisito, come dimostrano le opere di Peter Singer (il cui Liberazione animale, del '75, è una sorta di classico in questo ambito) o di Tom Regan, autore di un testo dal titolo inequivocabile, I diritti animali. E non soltanto perché l'idea che la Terra ci appartenga di diritto si rivela sempre meno fondata, ma anche perché quasi ogni giorno nuove scoperte dimostrano come molte altre specie siano dotate di una intelligenza evidente anche al (non molto percettivo) sguardo umano. È ormai assodato che gli scimpanzé insegnano ai loro piccoli a realizzare strumenti, che gli elefanti sono in grado di risolvere problemi, che i polpi programmano le loro azioni, tanto da essere citati nella nuova Declaration of consciousness firmata lo scorso luglio a Cambridge da un gruppo internazionale di neuroscienziati.

Sotto un certo punto di vista, però, sono proprio i cani a rappresentare per gli umani la maggiore fonte di interesse: anche senza considerare che un cane può imparare più di 150 parole, secondo studi condotti da uno dei maggiori specialisti della materia, Stanley Coren, della University of British Columbia, la lunghissima convivenza delle due specie – oltre 30.000 anni, stando alle ultime scoperte – ha fatto sì che i cani abbiano imparato a “leggerci” molto meglio di quanto solitamente non pensiamo. Come ha scritto Annie Murphy Paul su “Time”, i cani “rispondono ai nostri gesti, reagiscono al nostro linguaggio corporeo, seguono i nostri occhi per capire dove stiamo guardando”. E se una comunicazione su “Biology Letters” ci avverte che “gli sbadigli umani sono contagiosi verso i cani domestici”, una ricerca pubblicata già dieci anni fa su “Science” aveva dimostrato che i cuccioli di poche settimane dimostrano capacità comunicative con gli umani maggiori rispetto a quelle rilevate nei lupi, anche se allevati in cattività. E nel suo articolo Murphy cita Gregory Berns, un ricercatore della Emory University, convinto che gli interrogativi aperti sulla questione siano ancora moltissimi: “Come fanno i cani a distinguere gli umani che conoscono, con la vista o con l'olfatto? Quale significato ha il nostro linguaggio per loro?  Come rappresentano mentalmente gli umani e gli altri animali, cani inclusi?”.

Ma il punto più importante, almeno per quanto ci riguarda, è che, “dal momento che di fatto gli umani hanno contribuito a forgiare i cani attraverso la domesticazione, la mente canina riflette il modo in cui noi stessi ci vediamo, attraverso gli occhi, le orecchie e i nasi di un'altra specie”.

Se, e quanto, questa immagine allo specchio sia lusinghiera, è un altro discorso.

Maria Teresa Carbone

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