SOCIETÀ
In nome del copyright, una class action contro Google? No grazie
Un addetto durante la scansione di un libro destinato a diventare "elettronico". Foto: Reuters/Ccs/Handout
Google vince un'importante battaglia nella guerra da lungo tempo in corso attorno al suo progetto di digitalizzazione delle opere non più reperibili in commercio. Una corte d'appello di New York ha rovesciato infatti la precedente decisione in primo grado, rifiutando lo status di "class action" alla controversa crociata condotta da Author Guild - che riunisce migliaia di scrittori - contro il progetto Google Books. Nel diritto statunitense una class action è una causa "di categoria": uno o più soggetti promuovono un'azione legale a tutela di interessi che li accomunano e rappresentano così, attraverso questa modalità, anche altri soggetti, non immediatamente presenti, che possono vantare interessi analoghi e che potranno associarsi anche in seguito. Il riconoscimento della possibilità di procedere come "class" è un passaggio importante e per nulla scontato: spesso dipende proprio da esso l'effettiva possibilità, per gruppi di soggetti o associazioni di categoria che si ritengono danneggiati, di agire legalmente contro le grandi corporation, e su questo si concentra lo scontro legale. Nel caso della disputa fra l'Authors Guild e Google con il suo progetto Books, si tratta di una questione giudiziaria che si trascina da oltre dieci anni numerosi cambi di scena.
Editori e autori riuniti nell'Authors Guild contestavano il fatto che la digitalizzazione operata da Google violasse i diritti da loro detenuti per libri coperti da diritto d’autore, e chiedevano un risarcimento di $750 a opera, ma la loro richiesta di rappresentare gli autori come "class" non ha riscosso accordo unanime. Pamela Samuelson - docente di giurisprudenza di fama internazionale e direttore del Berkeley Center for Law & Technology, considerata un pioniere della proprietà intellettuale e politiche dell’informazione - nel febbraio 2013 aveva inviato assieme a numerosi colleghi una lettera al giudice Denny Chin dove sottolineava di non condividere l’azione legale contro Google. Anche numerosi autori accademici non si sentivano affatto rappresentati da Author Guild e non ritenevano di essere stati danneggiati dalla digitalizzazione delle loro opere, semmai -come sosteneva l'Amicus Brief presentato dalle Associazioni dei bibliotecari accademici - il danno poteva derivare dal blocco del progetto.
Alla fine del 2011 il giudice Chin aveva decretato la class action «il metodo migliore per risolvere questa disputa»; ora, la competente Corte di appello di New York ha ribaltato quella decisione, argomentando che è prematuro riconoscere la class action e bisogna prima ascoltare le ragioni di Google che ritiene non sostenibile questa modalità per il risarcimento danni richiesto da Authors Guild. Secondo la corporation di Mountain View, infatti, gli autori devono protestare singolarmente piuttosto che riuniti in una azione di categoria, proprio perché i diritti d’autore sono diritti legati alla "singola persona".
La decisione della Corte d'appello riguarda la forma che la controversia legale verrà ad assumere, e dalla quale dipenderà molto del suo esito, ma probabilmente è stata influenzata anche dall'oggetto del contendere, e dalle prese di posizione di autori e associazioni bibliotecarie a favore di Google che abbiamo ricordato prima, e che hanno fortemente ridimensionato la plausibilità delle richieste dell'Author’s Guild. Quale infatti la posta in gioco?
Mentre la consultazione per intero, previa digitalizzazione, dei libri di pubblico dominio (70 anni dopo la morte dell’autore) non presenta aspetti particolarmente problematici, a causare nel 2005 una class action promossa da Author Guild era stata la possibilità per qualsiasi utente, offerta da Google, di ricercare entro opere tutt'ora protette da diritto d'autore ma non più in commercio, digitalizzate con la collaborazione delle biblioteche. Se gli editori nel corso degli ultimi decenni per i noti problemi di magazzino avevano mandato al macero milioni di testi a stampa, i cui unici custodi rimanevano a questo punto le biblioteche, l’idea che Google tirasse fuori da quella zona grigia tutte queste opere per metterle in rete aveva scatenato le ire dei "competitori" di un mercato che ancora non esisteva.
Google rispose nel 2008 con una proposta di accordo transattivo noto come Settlement – presentato all’Association of American Publishers - dove proponeva un risarcimento alle associazioni, creazione di un pubblico registro delle opere (che mancava e manca tuttora) e un database ad uso degli autori scientifici per le ricerche nel campo delle discipline umanistiche, oltre a una serie di altri interessanti progetti collaterali. La controversia si trascinò fino ad una seconda versione dell’accordo, il Settlement 2.0, che prevedeva una serie di ulteriori vantaggi per i vari attori della catena editoriale: per gli autori, che avrebbero ricevuto royalties pari al 63% del prezzo di vendita della versione digitale, per le biblioteche cooperanti che avrebbero ricevuto una copia di tutti i libri digitalizzati ad uso interno e per gli utenti delle biblioteche che avrebbero potuto consultare in sede tutta la banca dati delle digitalizzazioni.
A seguito della battaglia legale, Google aveva nel frattempo diviso il progetto in due distinte linee: il "Programma Partner" con gli editori, e il "Progetto Biblioteche" con le biblioteche appunto. Oggi, sono oltre 10.000 gli editori e gli autori di oltre 100 paesi che aderiscono al programma, attraverso il quale mantengono i diritti e si accordano direttamente con Google. Se entro il progetto con gli editori valeva (e vale tuttora) la regola dell’OptionIN, ovvero un preventivo e manifesto consenso ad aderirvi, nell’accordo con le biblioteche Google applicava alla digitalizzazione dei libri “fuori commercio” la regola del silenzio-assenso e quindi l’OptionOUT. Da qui la controversia.
L’accordo proposto, osteggiato dai grossi competitori di Google, fu rifiutato con la storica sentenza emessa dal Giudice Chin a fine del 2011, che rimise la decisione nella mani del Congresso e bloccò la linea di digitalizzazione entro le biblioteche. I testi digitalizzati vennero oscurati e rimase in piedi solo la parte commerciale in accordo con gli editori. In altri termini attualmente possono essere recuperati, e acquistati, solo i libri digitalizzati i cui diritti sono di competenza degli editori.
Il Progetto Biblioteche, attualmente in stand-by, è passato dai 28 partner iniziali a 50 biblioteche, incluse sette biblioteche internazionali. Il contenuto degli accordi con le singole biblioteche partner è pubblicamente accessibile. La battuta d'arresto imposta ora dalla Corte d'appello di New York alla richiesta di costitursi in class action della Authors Guild riapre ora tutte le possibilità.
A.D.R.