UNIVERSITÀ E SCUOLA

Internet no, discoteche sì: i misteri del bonus docenti

“La ripetente fa l’occhietto al preside”; “La segretaria privata di mio padre”; “La vedova inconsolabile ringrazia quanti la consolarono”. Il gestore di cinema che dedicasse una rassegna a Mariano Laurenti, maestro della commedia sexy anni ’70, da qualche settimana potrebbe contare su una risorsa formidabile per promuovere questo cineforum d’essai: scrivere ai dirigenti scolastici di tutta Italia, invitando i professori ad assistere gratis alle proiezioni. Sì, perché la “Carta del docente”, il bonus di 500 euro annui netti stabilito dal governo per la formazione degli insegnanti, consentirebbe ai prof di Merano o Messina la nostalgica rievocazione a totale carico dello Stato. Con una giustificazione chiarissima: si tratterebbe di attività formativa. 

La “Carta del docente”, bonus applicato per la prima volta in questi giorni, rientra tra gli investimenti del Miur per il piano “La Buona Scuola”: sono stanziati a questo scopo 381 milioni all’anno. Quasi il doppio della cifra (200 milioni annui) stabilita per il “fondo per la valorizzazione del merito”, che i dirigenti dovranno distribuire ai docenti più bravi. Desideroso, dopo il maxi-piano di assunzioni, di dare un segnale di attenzione anche sulla formazione del personale, il governo ha deciso per la via più breve. E quindi, a partire dall’anno scolastico già iniziato, a ciascuno dei docenti di ruolo di tutte le scuole pubbliche nazionali viene assegnata, ogni 12 mesi, una somma di 500 euro da spendere “per finalità di formazione e aggiornamento professionale”. Il bonus, in futuro, dovrebbe assumere la forma di una carta di pagamento elettronica ad hoc; per quest’anno, intanto, i soldi vengono versati ai professori in contanti. Formazione fai da te, quindi: ogni docente può scegliere come destinare la somma. Nel rispetto, ovviamente, degli inflessibili criteri del ministero.

Ma cosa intende il Miur per “formazione e aggiornamento professionale”? La potenziale lista della spesa è contenuta nel Dpcm 23 settembre 2015, che dedica alla spiegazione 12 righe scarse, copiandole e incollandole dalla legge di riforma. Si parla (una riga per ciascuna voce) di “libri e testi, pubblicazioni e riviste”, anche in formato digitale; di “hardware e software”; “rappresentazioni teatrali e cinematografiche”; “musei, mostre ed eventi culturali e spettacoli dal vivo”. Poco più dettagliate le due voci restanti: corsi di aggiornamento e qualificazione e corsi universitari (cinque righe) e ulteriori “iniziative” coerenti con il piano triennale dell’offerta formativa e il piano nazionale di formazione (tre righe). Come si raccapezza il docente scrupoloso, di fronte a una tale vaghezza? In soccorso dovrebbero giungere le “indicazioni operative” della nota del 15 ottobre 2015: tre pagine, firmate da due direttori generali del ministero, in cui le modalità di utilizzo della “Carta” vengono copiate e incollate dal testo del Dpcm, a sua volta copiato e incollato dalla legge 107.

Resosi forse conto del problema, il ministero è passato alle “istruzioni delle istruzioni”, pubblicando una serie di “faq” (domande e risposte) che dovrebbero sciogliere ogni dubbio. Nelle quali la parola chiave è “trasversale”: poiché la formazione professionale del docente deve riguardare “competenze disciplinari e trasversali”, argomenta il ministero, non ha senso che l’oggetto della formazione sia attinente alla disciplina insegnata. Questo vale, ad esempio, per ogni forma di attività culturale consentita dalla “Carta”: musei, mostre, ma anche libri e riviste, film al cinema, spettacoli dal vivo. Tradotto: se con i 500 euro annui mi compro un abbonamento a tre riviste di gossip, mi abbono alla famosa rassegna su Laurenti e mi concedo una mezza dozzina di serate in discoteca (a condizione, ovviamente, che vi sia in corso qualche esibizione dal vivo), avrò pienamente rispettato le direttive del Miur.

Quanto alla voce “hardware”, le spiegazioni del ministero dividono l’universo informatico in due: sono considerati funzionali alla “formazione continua” computer e tablet; non lo sono gli smartphone (“hanno come principale finalità le comunicazioni elettroniche”), né “toner, cartucce, stampanti, pennette Usb e videocamere”. Rimane il mistero, dal momento che nessuna norma obbliga il docente a portare a scuola il dispositivo acquistato, del perché sia consentito comprarsi un computer fisso per il proprio salotto, mentre investire in uno smartphone da tenere sempre con sé sia vietato; così come vietato è spendere il bonus per una linea Adsl (“non è un software destinato alle specifiche esigenze formative di un docente”); quindi, tornando al salotto, posso comprarmi un pc per vedermi le partite di calcio prima di dormire (visto che canone Rai e pay tv sono esplicitamente interdetti), ma non posso collegarlo a Internet.

Ma, ci si potrebbe chiedere, non è prevista un’autorità scolastica con il compito di arginare la potenziale corsa dei prof a riviste da sala d’aspetto e recital di Checco Zalone?  Il dpcm stabilisce che ogni docente trasmetterà agli uffici della scuola di appartenenza i rendiconti di tutte le spese relative al bonus: le modalità verranno precisate in una futura nota ministeriale. L’unica condizione esplicitata nel decreto per fruire legittimamente del bonus è che la documentazione fiscale presentata deve essere completa e conforme alle finalità dell’articolo 4 dello stesso decreto. E l’articolo 4 non è altro che la lista dei prodotti e servizi acquistabili: ergo, tutto è permesso purché rientri nel novero, larghissimo e vaghissimo, dei beni autorizzati. È lecito, a questo punto, interrogarsi con qualche apprensione sui criteri con cui i presidi distribuiranno gli altri 200 milioni annui agli insegnanti meritevoli: non sarebbe meglio tagliare la testa al toro, e destinarli tutti alla formazione dei direttori generali del Miur?

Martino Periti

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