SOCIETÀ

Un 25 aprile un po’ diverso

Questo 25 aprile è diverso, e forse diversi siamo anche noi. Ricorre infatti il 75° anniversario del giorno che segnò l’inizio della fine dell’incubo nazifascista, della dittatura e della guerra, un ricordo che dovrebbe rallegrarci tutti. Eppure proprio quest’anno l’emergenza dovuta al Covid-19 sembra impedirci di celebrare degnamente questa ricorrenza. Ma non di ricordarne, pur in solitudine, l’importanza per la rinascita dello Stato e della società italiana.

Con il 25 aprile celebriamo “la parte per il tutto”: è una data simbolo, l’avvio dell’insurrezione generale, da parte del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia, contro fascisti e tedeschi, per accelerarne la rotta e la resa. Già il 18 aprile a Torino si era svolto un imponente sciopero generale ‘insurrezionale’. Un documento del servizio segreto inglese del 2 giugno 1945 elenca 125 tra città e centri minori liberati dai partigiani prima dell’arrivo degli alleati, dando conto con ammirazione dell’azione delle formazioni antifasciste, che tra gennaio e aprile erano state in grado di mettere fuori combattimento circa 55.000 nemici tra morti, feriti e prigionieri. Il Clnai emanò immediatamente numerosi decreti legislativi con cui assunse il potere. I combattimenti continuarono fino alla fine del mese, soprattutto in un’area come il Veneto, fondamentale via di fuga per l’esercito tedesco. La conclusione ‘formale’ del conflitto giungerà il 3 maggio, come stabilito nella ‘resa di Caserta’. Giorni eccezionalmente concitati e drammatici: il 28 aprile avverrà l’esecuzione di Mussolini, il 30 Hitler si suiciderà a Berlino.

Un cammino di libertà e di affrancamento dalla tirannia in cui Padova giocò un ruolo determinante, certo molto maggiore di quello che normalmente la storiografia gli ha riconosciuto, e non lo affermo per passione campanilistica. Padova è stata la capitale della Resistenza veneta, come scrive Angelo Ventura, e “se dura fu la lotta in Lombardia ed in Piemonte – afferma Max Salvadori – nel Veneto fu asperrima”. Spesso inoltre si dimentica quanto scrisse Roberto Battaglia già nel 1953, nella sua Storia della Resistenza italiana: “L’esempio di Padova ha costituito la prima base di intervento attivo della cultura italiana; ha rotto l’aria stagnante del disorientamento e del dubbio”.

A 75 anni di distanza ricordare il 25 aprile significa festeggiare la rinascita, la catarsi

Facciamo un passo indietro: al 1943, momento tragico della sconfitta militare e della dissoluzione dello Stato fascista, ma anche del risveglio delle coscienze. Bobbio, che allora insegnava all’università di Padova, scrisse nella prima pagina della sua autobiografia: “dopo non siamo stati più come eravamo prima”. Iniziano gli ultimi venti mesi della guerra, segnati in Italia dall’azione politica e militare della Resistenza, un movimento clandestino complesso nel quale convergono forze e tendenze molteplici con motivazioni e prospettive diverse e in parte contrastanti; ma un fatto politico di enorme importanza, al di là del suo peso militare, che non fu comunque trascurabile.

Con l’armistizio dell’8 settembre l’università di Padova – il rettorato, in primo luogo – diventerà fisicamente il centro organizzativo politico-militare della resistenza veneta. Concetto Marchesi era stato nominato rettore da pochi giorni e aveva scelto come prorettore Egidio Meneghetti. A casa di Marchesi, subito dopo l’8 settembre, con Meneghetti e Silvio Trentin, giurista, professore universitario, ex deputato e prestigioso esule antifascista in Francia, esponente di ‘Giustizia e Libertà’ già attivo nella resistenza francese, nasceva il Comitato di Liberazione Nazionale regionale Veneto, in cui si confrontavano e collaboravano comunisti, socialisti, azionisti, democristiani e liberali. Uomini eccezionali, Trentin, Meneghetti e Marchesi, la cui azione fu di straordinaria importanza: seppero non solo organizzare la resistenza armata, ma soprattutto offrirle una stabile guida politica, salvaguardandone il tratto unitario e patriottico, indirizzandola prima di tutto contro l’occupazione tedesca.

La Resistenza italiana in tutte le sue componenti esaltò al massimo la componente nazionale, in realtà smarrita e sperperata dai fascisti: ne è prova l’intensità delle spinte unitarie di quei mesi: “Raramente – ha scritto Vittorio Foa – ci siamo sentiti così insieme come allora. Siamo arrivati al punto che, quando si dovette scegliere una parola per definire (anche nei rapporti burocratici) i resistenti, fu scelta la parola patrioti. Naturalmente la patria dei resistenti era l’opposto di quella nazionalista, declamatoria e aggressiva, del ventennio fascista”.

Festeggiare la Resistenza è ricordarsi che, senza una costante riaffermazione di volontà e di progetto, la democrazia è molto fragile

Marchesi di lì a poco entrerà in clandestinità, trasferendosi in Svizzera, dopo aver lanciato il suo memorabile appello agli studenti, vera dichiarazione di guerra agli oppressori. Il famosissimo appello agli studenti di Marchesi è del 28 novembre 1943, e verrà reso pubblico il primo dicembre. In quegli stessi giorni, tra Napoli e il Lazio, si consuma la tragica fine dell’intellettuale e partigiano Giaime Pintor, che così, proprio il 28 novembre, scriveva al fratello Luigi (futuro parlamentare e direttore del Manifesto): “Oggi sono riaperte agli italiani tutte le possibilità del Risorgimento: nessun gesto è inutile purché non sia fine a se stesso. Quanto a me, ti assicuro che l’idea di andare a fare il partigiano in questa stagione mi diverte pochissimo; non ho mai apprezzato come ora i pregi della vita civile e ho coscienza di essere un ottimo traduttore e un buon diplomatico, ma secondo ogni probabilità un mediocre partigiano. Tuttavia è l’unica possibilità aperta e l’accolgo”. Morirà il 1° dicembre 1943, saltando su una mina, nel tentativo di attraversare le linee nemiche e raggiungere Roma.

Oggi, a 75 anni di distanza, ricordare quegli eventi significa festeggiare la rinascita, la catarsi. Sempre Max Salvadori scrisse che “la guerra partigiana era stata guerra di espiazione, ancor prima di diventare la guerra di liberazione”. A molti ­disinformati, distratti o interessati che siano,­ pare del tutto superfluo ‘rinvangare’ avvenimenti di tre quarti di secolo fa: la fine della seconda guerra mondiale, la sconfitta del nazifascismo e la vittoria degli alleati e dei partigiani. Soprattutto oggi questa sembra essere una eco davvero lontana, estranea, che ben poco sembra avere a che fare con il presente: tempi di grande preoccupazione, di profonda apprensione per i gravi danni umani, morali ed economici che la pandemia sta infliggendo a tutti nel mondo. L’orizzonte è cupo, la situazione di stallo in cui ci troviamo è certamente pericolosa per la tenuta degli equilibri sociali e politici delle nostre democrazie.

Forse ciò di cui oggi si sente più la mancanza è una risposta solidale e comune, trasparente e operante, transnazionale, ad un problema che ignora i confini e che ci riguarda tutte e tutti: il nostro Paese, la nostra Europa e il mondo. È questo bisogno di coesione, di razionalità, di cooperazione internazionale che ci ricorda l’importanza di quanto avvenuto settantacinque anni fa.

Nel trentennio che racchiude le due guerre mondiali si è andata svolgendo una mostruosa ‘era delle tirannidi’ (l’espressione è di Élie Halévy, del 1938), tragica quanto inedita, segnata dalla nascita dei regimi cosiddetti totalitari (il comunismo bolscevico, il fascismo e il nazismo, con molti imitatori minori). Per l’Europa occidentale l’esperienza storica, politica e morale, delle resistenze al nazifascismo, ossia ad un regime sterminatore, schiavistico e razzistico, ha rappresentato esattamente il fondamentale laboratorio politico-culturale da cui emerse lo straordinario periodo di pace e prosperità, al netto delle inevitabili difficoltà e crisi, che ha contraddistinto gli ultimi 75 anni. Da quel laboratorio è uscita un’idea di democrazia fondata sulla libertà individuale e sul diritto che non è mai scontata, e che ha contribuito a costruire in tutta Europa una rete di Stati costituzionali che non possono non essere istituzionalmente e ‘naturalmente’ antifascisti, se per antifascismo consideriamo banalmente l’antitesi ai principi totalitari, fondati sulla manipolazione, la propaganda, il terrore, lo sterminio, la guerra.

In questo senso oggi è davvero la festa di tutti. Festeggiare il 25 aprile è insomma ricordarsi che, senza una costante riaffermazione di volontà e di progetto, la democrazia è molto fragile.

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