Una veduta dall'alto di Port-au-Prince, capitale di Haiti. Foto: Reuters
Haiti sta precipitando nel baratro, travolta da una spirale di catastrofi convergenti: umanitaria, sociale, economica, politica, sanitaria. Le emergenze si moltiplicano e s’intrecciano, tra violenze sempre più diffuse e impunite, e nella più totale inazione delle forze politiche. La fame ha ormai toccato il livello 5 “catastrofico”, il più alto previsto dall’Integrated Food Security Phase Classifications (IPC), per quasi ventimila persone, ridotte a consumare un solo pasto al giorno, privo di nutrimenti essenziali. Ma sono 4,7 milioni gli haitiani, quasi la metà del totale, che devono affrontare quotidianamente una situazione di “fame acuta” (livello 3 e 4 dell’indice IPC). Non c’è più carburante, né cibo, né una qualsiasi forma di legalità. I trasporti pubblici sono fermi. Chiuse le scuole, le fabbriche, i negozi, perfino gli ospedali. Aziende chiuse vuol dire licenziamenti, lavoro che non c’è, famiglie a cui badare in qualche modo. Ampie zone di Port-au-Prince, ma non soltanto, sono ormai nelle mani di bande criminali che controllano le principali vie d’accesso e sparano, uccidono, rapiscono, stuprano, senza che alcuna forza di polizia riesca a contrastare questa deriva. Una di queste gang, la famigerata “G9 an fanmi ak alye” (“nella famiglia e negli alleati”) che fa capo al boss Jimmy Chérizier, un ex agente di polizia soprannominato “Barbecue”, blocca dal mese scorso il terminal petrolifero di Varreux, il più importante dell’isola caraibica, nel porto della capitale, rivendendo il carburante a prezzi stratosferici (si parla di 9 dollari al litro) al mercato nero. Una dimostrazione di forza dell’organizzazione criminale presa all’indomani della decisione del governo di eliminare i sussidi pubblici per l’acquisto del carburante (su consiglio del Fondo Monetario Internazionale), che ha scatenato la rivolta di una popolazione sempre più esasperata e affamata, con saccheggi e disordini nelle principali città. I blackout elettrici sono sempre più frequenti, l’acqua potabile è quasi introvabile, il blocco dei trasporti impedisce perfino la raccolta dei rifiuti. La situazione sanitaria è al collasso: mancano i medicinali e spesso per i malati è impossibile raggiungere gli ospedali. E ora sta arrivando l’ennesima emergenza: il ritorno del colera, che già nel 2010, dopo il terremoto che aveva sconvolto l’isola, provocando 200mila vittime. Finora sono 35 le morti accertate, con oltre 600 casi sospetti, ma i numeri sono in rapidissimo aggiornamento. Si teme che l’epidemia possa facilmente attecchire nelle carceri sovraffollate, ammesso che ci siano ancora le condizioni minime (strumenti, personale) per accertare la causa dei decessi.
Haiti: International community must act decisively and help address health crisis, combined with persistent insecurity and corruption, that are accelerating country's downward spiral, says UN top official. https://t.co/REFBUlZ2JN
— United Nations (@UN) October 18, 2022
Guterres (Onu): «Indispensabile un intervento armato»
Il potere politico non soltanto non sembra avere alcuna possibilità di fermare la colossale spirale di violenza, ma è anche sospettato (eufemismo) di essere colluso con le bande criminali, che a loro volta dichiarano pubblicamente di combattere contro “la corruzione della politica locale”. Il presidente pro tempore Ariel Henry, ex primo ministro, subentrato al presidente Jovenel Moïse (ucciso il 7 luglio 2021 nella sua casa privata a Port-au-Prince da un commando di mercenari colombiani) e da mesi bersaglio delle contestazioni di migliaia di haitiani che ne chiedono le dimissioni, è stato costretto a chiedere aiuto ai “partner stranieri”, in una dichiarazione che ha il sapore della resa: «Chiedo all’intera comunità internazionale, a tutti i paesi amici di Haiti, di stare con noi e aiutarci a combattere questa crisi umanitaria». Stati Uniti e Messico stanno preparando una risoluzione da presentare alle Nazioni Unite per autorizzare una missione internazionale finalizzata a “migliorare la sicurezza ad Haiti”. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, non ha usato giri di parole: «È una situazione assolutamente da incubo per la popolazione di Haiti, specialmente a Port-au-Prince. Credo che non solo sia necessario rafforzare la polizia haitiana, rafforzandola con addestramento ed equipaggiamento adeguati, ma che nelle circostanze attuali sia indispensabile un'azione armata per liberare il porto e consentire la creazione di un corridoio umanitario». Anche il ministro degli Esteri haitiano, Jean Victor Geneus, spinge per l’intervento immediato: «Il popolo di Haiti non sta vivendo, sta sopravvivendo. E vi parlo a nome di quattro milioni di bambini che non possono più andare a scuola a causa della violenza delle bande».
Una soluzione, quella dell’intervento di stati stranieri, che tuttavia non è gradita a gran parte degli haitiani, compresi gli attivisti per i diritti umani. Dall’indipendenza (ottenuta nel 1804, era una colonia francese) ci sono stati tre interventi di forze straniere. L’ultimo dopo la rivolta popolare e la cacciata del presidente Jean-Bertrand Aristide, con l’insediamento di una forza di pace delle Nazioni Unite, rimasta nel paese dal 2004 al 2017, una presenza peraltro macchiata da gravissime accuse di frequenti e ripetuti abusi sessuali. Quindi la storia rischia di ripetersi. Come spiega Rosy Auguste Ducena, avvocata e direttrice del programma presso la Rete nazionale per la difesa dei diritti umani (RNDDH) ad Haiti, interpellata dall’emittente araba Al Jazeera: «La storia ci ha mostrato più di una volta che le forze straniere ci portano più problemi che soluzioni». La Rete Nazionale aveva ripetutamente denunciato il dilagare della corruzione all’interno della Polizia haitiana, documentando i collegamenti di alcuni partiti politici con le bande criminali, con finanziamenti diretti e mirati. «Lo stato haitiano ha bisogno di essere de-gangsterizzato», ha concluso Ducena. E la stessa Onu è divisa, con Russia e Cina che hanno espresso “riserve” sulla possibilità di inviare sull’isola caraibica un contingente militare sotto le insegne delle Nazioni Unite. Il relatore cinese ha motivato così le sue perplessità: «In un momento in cui il governo haitiano manca di legittimità e non è in grado di governare, l’invio di una forza d’azione così rapida ad Haiti riceverà la comprensione, il sostegno e la cooperazione dei partiti ad Haiti o incontrerà resistenza o addirittura innescherà uno scontro violento?» Il portavoce di “Nou Konsyan”, gruppo di attivisti anti-corruzione a Port-au-Prince, ha dichiarato: «Dovremmo incatenare le porte di tutti gli uffici delle istituzioni pubbliche fino a quando il primo ministro Ariel Henry non se ne andrà. E dovremmo anche riunirci davanti alle ambasciate dei diversi paesi ad Haiti, tra cui Stati Uniti, Francia e Canada: non accetteremo la presenza di forze straniere sul nostro territorio». Una decisione dell’Onu è prevista per la prossima settimana.
Saccheggi e violenze fuori controllo
Intanto Haiti sprofonda nell’insicurezza, nella disperazione, nella più assoluta paralisi. Senza combustibile le attività produttive e commerciali sono bloccate. E senza lavoro non ci sono nemmeno i soldi per comprare i beni primari. Fermi i camion che consegnano cibo ai supermercati, spenti i generatori che conservano le derrate alimentari. La carestia è già qui. E l’inflazione, per quanto sia possibile fare calcoli attendibili in una simile situazione, si attesta a un + 33% annuo. Nelle zone rurali la situazione, per quanto possibile, è ancor più grave: la corrente elettrica, quando c’è, arriva a poco più del 10% delle abitazioni, mentre l’acqua potabile è ormai un miraggio. Le proteste spontanee contro il governo si susseguono, soprattutto a Port-au-Prince, per dire no all’intervento straniero, per chiedere le dimissioni del presidente pro-tempore, ma soprattutto per chiedere misure concrete per affrontare la carenza di cibo e di carburante, oltre che per divincolarsi dallo strapotere delle bande criminali, che continuano a “reclutare” personale, bambini compresi. I saccheggi sono all’ordine del giorno: persino due magazzini del World Food Programme (WPF) sono stati assaltati, e poi incendiati, a Gonaïves e a Les Cayes. Le principali strade del paese sono ormai trasformate in trincee, tra copertoni incendiati e violenze fuori controllo (soltanto nel 2022 sono stati segnalati quasi mille sequestri di persona, gli omicidi sono stimati in “migliaia”). Nella capitale si formano quotidianamente campi di sfollati, in fuga dai quartieri presi in ostaggio dalle gang. Helen La Lime, rappresentante speciale delle Nazioni Unite ad Haiti, che chiede l’apertura urgente di un corridoio umanitario, ha descritto così la situazione al Consiglio di Sicurezza dell’Onu: «Le bande continuano a bloccare il terminal di Varreux, dove è immagazzinata la maggior parte del carburante del paese. Le conseguenze per le infrastrutture di base di Haiti sono state gravi, interrompendo le operazioni presso gli ospedali e i fornitori di acqua. Senza carburante la spazzatura non può essere rimossa dai quartieri, mentre le piogge torrenziali favoriscono le inondazioni che trascinano via i rifiuti, creando condizioni insalubri che favoriscono la diffusione del colera».
La situazione è drammatica da qualsiasi parte si osservi e nonostante i massicci aiuti che Stati Uniti e Canada continuano a inviare alla polizia haitiana. Le navi hanno smesso di portare petrolio al terminal di Varreux. Human Rights Watch riporta la notizia che il 10 giugno scorso la banda criminale chiamata “5 Seconds” ha preso il controllo del Palazzo di Giustizia di Port-Au-Prince. «Hanno costretto i funzionari giudiziari a uscire, hanno ferito un pubblico ministero e hanno rubato computer, scrivanie e altri beni». L’azione ha provocato la paralisi delle attività giudiziarie, con migliaia di persone (l’ong stima che oltre il 90% dei detenuti nelle carceri sia in custodia cautelare) “trattenute arbitrariamente, poiché non sono mai state portate davanti a un giudice”. Ed è proprio qui, nelle carceri, che si sta registrando il maggior numero di casi di colera. Pochi giorni fa il direttore dell’OMS, Tedros Adhanom Ghebreyesus, ha rilevato come siano difficoltose le operazioni di raccolta campioni e di analisi dei pazienti che si sospetta siano colpiti dal Vibrio cholerae, un batterio che si sviluppa in acqua e alimenti contaminati con feci umane. Impossibile avere dati attendibili su quel che sta realmente accadendo nelle zone rurali, fuori dalle città. Chi può scappa, come può: tentando disperate traversate in mare, oltre cento haitiani (60 donne, di cui tre incinte, 38 uomini e 5 bambini di età compresa tra i 5 e i 13 anni) sono stati trovati, e soccorsi, dal dipartimento americano “US Customs and Border Protection” sull’isola di Mona, disabitata, vicino a Porto Rico. Domenica scorsa la guardia costiera degli Stati Uniti ha salvato altri cento migranti su un barcone al largo della Florida: hanno detto di essere rimasti in mare per una settimana, gli ultimi due giorni senza acqua né cibo. Anche il vescovo di Anse-à-Veau et Miragoâne, Pierre-André Dumas, ex presidente di Caritas Haiti, ha voluto lanciare un allarme: «Non abbiamo le autorità democratiche previste dalla Costituzione, il Parlamento non c’è, l’apparato giudiziario non funziona. Il governo centrale ha deciso di far salire il prezzo della benzina in seguito alla crisi mondiale e questo ha avuto un impatto tremendo sul popolo e sui poveri. C’è inoltre una crescita galoppante del costo dei viveri, la gente non può permettersi di comprare niente. Molte persone hanno perso la speranza e si sono lasciati trascinare nei gruppi armati. Ci sono politici che manipolano questa situazione e imprenditori che pagano le gang e agiscono in maniera mafiosa. Questo ha creato una situazione invivibile. Se gli haitiani non si mettono d’accordo per risolvere il problema allora c’è bisogno di un aiuto internazionale concreto per sostenere il popolo, per la sopravvivenza stessa del popolo. I poveri non possono più aspettare».