He Jiankui presenta i risultati del suo controverso esperimento al Second International Summit on Human Genome Editing di Honk Kong a novembre 2018. Credits: Voa, Iris Tong
L’asse del mondo della ricerca scientifica è sempre più inclinato a Oriente. È pertanto indispensabile accendere i riflettori sull’integrità etica della ricerca nel Paese, la Cina, dotato del più alto numero di personale dedito a quest'impresa: 4 milioni di persone. È anche il Paese che nel 2016, secondo un’analisi pubblicata dalla National Science Foundation statunitense, ha prodotto in assoluto più articoli scientifici: 426.000 contro i 409.000 degli Stati Uniti, il 18,6% di tutti gli articoli scientifici pubblicati su riviste peer reviewed quell’anno (contro il 17,8% degli Stati Uniti). Un sorpasso storico, aveva titolato Nature, anche se una più recente analisi pubblicata da Nature Index dice che nei due anni successivi gli americani hanno recuperato il primato di produzione scientifica, marcati stretti sempre dalla Cina, che dal 2017 al 2018 è comunque la nazione che in questa classifica è cresciuta più di ogni altra, con un incremento del 15% da un anno all’altro.
Dati estratti da Web of Science, analisi dell’Institute for Scientific Information, Clarivare Analytics. Nature Index, dicembre 2018
Secondo alcune valutazioni i numeri della Cina sarebbero ancora una sottostima della reale produzione, perché verrebbero lasciati fuori molti lavori in cui tra gli autori è presente un solo ricercatore cinese e gran parte degli articoli scientifici pubblicati su riviste in lingua cinese.
In fondo se alla Cina oggi spetti o no il primato assoluto poco importa. Quasi tutti gli analisti convergono nel ritenere che sarà indiscutibilmente suo in un futuro molto prossimo. Secondo i dati dell’R&D Magazine analizzati da Il Bo Live, gli Stati Uniti oggi rimangono la nazione che investe di più in ricerca e sviluppo, con 568,5 miliardi di dollari spesi nel 2018, seguiti dalla Cina con 485,5 miliardi di dollari. La crescita di questi investimenti vede però la Cina correre al ritmo del 7% annuo, mentre gli Stati Uniti restano più indietro al 3%. Ciò significa che nel giro di un quinquennio sarà il Dragone il baricentro della ricerca scientifica globale.
Nell’economia del XXI secolo la conoscenza è l’arma più affilata per vincere la competizione globale e la Cina questo l’ha capito bene. In meno di 20 anni il numero delle pubblicazioni scientifiche cinesi è più che decuplicato: nel 2000 era poco più di 30.000 e oggi ha scollinato quota 400.000. Ma le politiche di sostegno alla conquista del primato scientifico e tecnologico non sono state prive di effetti collaterali. La foga di arrivare primi ha spesso lasciato indietro anche i principi base dell’etica della ricerca.
Emblematico è stato il caso del biofisico He Jiankui che a novembre 2018 ha annunciato la nascita di due gemelline, Lulu e Nana, il cui genoma era stato modificato per prevenire l’infezione dal virus dell’Hiv che avrebbero ereditato dal padre. La comunità scientifica ha denunciato l’avventatezza dell’esperimento data la mancanza di garanzie sulla sicurezza delle nasciture. Contro il ricercatore cinese si sono rivolte anche le istituzioni cinesi, la cui reazione è però apparsa tardiva e opportunistica, dato che non potevano non essere a conoscenza del progetto e delle linee che erano già state oltrepassate.
Divenire la prima potenza scientifica globale implica che dalla condotta dei propri ricercatori dipende una buona fetta della qualità della ricerca mondiale. Da grandi poteri derivano grandi responsabilità, che non possono più essere eluse.
Fonte: Li Tang/Web of Science. Nature, novembre 2019
Un articolo appena pubblicato su Nature mostra infatti i dati sulla quantità di frodi scientifiche che sono ascrivibili alla ricerca cinese. Su quasi 22 milioni di articoli scientifici considerati, in un periodo di circa 40 anni che va dal 1979 al 2017, la Cina ha contribuito con l’8% della produzione mondiale. Se però si misura il numero delle pubblicazioni ritirate dalle riviste scientifiche per manipolazione dei dati, plagio o casi di raggiro della peer review, la Cina vanta, si fa per dire, il 24,2% degli articoli ritirati totali, un numero 3 volte superiore a quello che ci si dovrebbe aspettare dal paragone con gli altri Paesi.
Secondo un’analisi di Retraction Watch, proveniva dalla ricerca cinese più del 50% di tutti gli articoli ritirati dalle riviste scientifiche al mondo dal 2012 al 2016: alla Cina sono stati ritirati più articoli di quanti ne siano stati ritirati a tutti gli altri Paesi messi insieme. Nel solo settore biomedico, nel 2017 la rivista Tumor Biology ha ritirato 107 articoli firmati da ricercatori cinesi in seguito a irregolarità nel processo di peer review.
Nel sistema di assistenza alla pubblicazione, esistono in Cina agenzie dedicate al supporto all’autore in fase di submission (presentazione del lavoro alle riviste), ma esistono anche agenzie che forniscono i dati da inserire nelle pubblicazioni. In molti istituti di ricerca cinesi i ricercatori ricevono un incentivo per l’avvenuta pubblicazione, che va dai 30 fino ai 165.000 dollari per le riviste più prestigiose, come riporta un’indagine del 2017 intitolata “publish or impoverish”. In questi giorni sono in corso accertamenti sui lavori di Cao Xuetao, immunologo di fama e presidente della Nankai University di Tianjin: sarebbero 63 gli articoli incriminati in cui compare almeno come co-autore, pubblicati a partire dal 2003 su 28 riviste, tra cui Science, Nature Communications, Cardiovascular Research e Molecular Immunology.
Gli appelli per mettere un argine a una situazione al limite del controllo sono venuti sia dall’estero che dall’interno. A maggio di quest’anno la Cina ha riunito due gruppi di esperti, dal Ministero della scienza e tecnologia e dalla Chinese Academy of Social Sciences, per far fronte al problema dell’integrità della sua produzione scientifica e per tamponare i casi di cattiva condotta. A novembre sono state rilasciate 43 penalità per cattiva amministrazione accademica, nella forma di ritiro di finanziamenti, arresto degli avanzamenti di carriera e revoca di licenze. Il governo ha inoltre redatto un documento per la promozione dell’integrità della ricerca.
Il percorso di risanamento però promette di essere lungo e non privo di ostacoli. La Cina dovrà innanzitutto adeguarsi a ciò che a livello internazionale è considerato comunemente cattiva condotta. Come scrive dalle pagine di Nature Li Tang, professore alla School of International Relations and Public Affairs, Fudan University di Shanghai, il riutilizzo di testo senza adeguata citazione è per lo più tollerato in Cina. Fino al 1999 la pubblicazione dello stesso articolo in cinese e inglese non era considerato un problema.
Esistono per fortuna diversi servizi, come quello fornito dal China National Knowledge Infrastructure (CNKI), che permettono di monitorare il plagio nelle ricerche cinesi. Altri, come quello del National Social Science Fund of China (NSSFC), si occupano invece di verificare che i progetti finanziati siano portati a buon fine entro il termine prefissato, pena il ritiro del finanziamento. Dal 2002 al 2005 il fondo NSSFC ha fermato circa 300 progetti su 5000 e dal 2006 in poi il numero di irregolarità è drasticamente calato da 6,6% a 0,5%.
Spesso però le agenzie cinesi attendono l’esplosione del caso mediatico prima di intervenire. È successo così per il caso di He Jiankui e per il caso Tumor Biology, che ha portato alla revoca di 40 finanziamenti e alla sanzione di un centinaio di ricercatori.
Occorre dunque prevenire anziché curare. E la prevenzione non può che venire dall’interno delle mura entro cui si svolgono le ricerche, ovvero dalle università stesse, che però spesso per timore di incorrere in sanzioni e perdere reputazione ritardano a prendere provvedimenti. Preferiscono spegnere l’incendio, scoppiato magari sui media, anziché prevenirne l’innesco.
Li Tang propone una serie di strategie d’azione che comprendono l’adeguamento, anche attraverso un apposito codice, alle regole internazionali che definiscono i contorni della buona e della cattiva condotta di un ricercatore. La trasparenza e la collaborazione tra ricercatori e finanziatori dovrebbe venire facilitata e supervisionata dalle agenzie cinesi come il ministero e l’accademia delle scienze, che dovrebbero anche supportare le singole università nel costruire regole di monitoraggio interne, inclusa l’assunzione di un funzionario il cui lavoro sia dedicato all’integrità della ricerca e l’accesso libero a software per il controllo del plagio. Le riviste dovrebbero rendere e espliciti gli articoli ritirati, come fa la maggior parte di quelle occidentali, e non semplicemente nasconderli dal database. Anche per gli studenti di dottorato, e non solo per i ricercatori strutturati, dovrebbero venire proposti corsi appositi sull’etica della ricerca.
Potremmo assistere nei prossimi anni a un aumento dei casi rilevati di cattiva condotta, conclude Li Tang, ma questo sarebbe un bene, in quanto segno dell’efficacia di una maggiore attenzione collettiva nei confronti di un tema davvero molto delicato non più solo per la Cina.