Protesta degli indigeni brasiliani. Foto di Amanda Perobelli per Reuters.
Gli indigeni dell’Amazzonia brasiliana rischiano di trovarsi senza terra, senza futuro. La loro sorte è nelle mani della Corte Suprema Federale che tra poche ore si pronuncerà su quello che è stato già definito “il processo del secolo”. In sostanza i giudici del massimo tribunale del Brasile (le sue sentenze non sono appellabili) devono decidere se accogliere o meno il principio del “marco temporal” (limite temporale), vale a dire la possibilità di riconoscere alle popolazioni indigene il diritto a risiedere nelle loro terre soltanto se potranno dimostrare di averle “fisicamente” abitate dal 5 ottobre 1988, giorno in cui fu promulgata la costituzione brasiliana. In assenza di quella “prova”, quel suolo verrebbe requisito dallo Stato. La causa era stata promossa dal governo di Santa Catarina, uno stato nel Sud del paese, sostenuto dalla lobby agraria (potentissima in Brasile) che ritiene “abusiva” l’occupazione della terra indigena Ibirama, oggi abitata dai popoli Xokleng, Kaingang e Guarani. Ma se il principio fosse accettato dai giudici, la sentenza avrebbe ripercussioni su tutte le Terre Indigene del paese. Perché molti di quei popoli erano stati cacciati dai loro territori, espropriati prima dai colonizzatori, e poi dalla dittatura militare (dal 1964 al 1985). In sostanza, un pronunciamento favorevole al marco temporal non farebbe altro che legittimare e ratificare gli espropri subiti durante il regime. Trentatrè anni dopo la stesura dell’attuale Costituzione, che ha consentito agli indios di rientrare nei confini delle loro terre d’origine, meno della metà dei quasi 1.300 appezzamenti rivendicati sono stati affidati in usufrutto permanente alle comunità originarie. Fermo restando che gli indigeni non ne sono i proprietari: non possono vendere o affittare quelle terre, ma soltanto gestirle a beneficio proprio e dell’umanità. Al proposito: stando a un report pubblicato dalla Fao, il “Forest governance by indigenous and tribal peoples”, le aree attualmente sotto il controllo dei nativi sono quasi tre volte meno disboscate delle altre.
Ma alla lobby agraria quelle terre fanno gola: quelle aree dell’Amazzonia potrebbero essere assai meglio sfruttate da un punto di vista economico e minerario, e magari distrutte per raggiungere l’obiettivo. E poco importa se il prezzo da pagare fosse la deportazione, o l’estinzione, di intere tribù. Si tratta di oltre 900mila persone, stando alle ultime stime: discendenti delle oltre duemila tribù (oggi ne sono rimaste poco più di 300, che parlano 180 diverse lingue) che abitavano l’Amazzonia prima dello sbarco di Cristoforo Colombo. Per l’attuale presidente del Brasile, Jair Bolsonaro, quei popoli contano meno di nulla. Senza alcun rispetto per le persone, per le tradizioni. Durante la pandemia da Covid-19 non ha alzato un dito per portare aiuto a quelle popolazioni totalmente indifese ed escluse da qualsiasi forma di assistenza sanitaria (oltre mille i morti, circa sessantamila i contagiati). Anzi, ha promosso leggi per consentire il saccheggio sistematico di quelle terre, conquistandosi così le simpatie dell’agribusiness brasiliano: un settore che se da un lato contribuisce a portare in positivo il Pil nazionale (+1,2% nel primo trimestre 2021) dall’altro è accusato di contribuire alla deforestazione, alla contaminazione di suoli e fiumi con l’utilizzo indiscriminato di pesticidi. Da quando Bolsonaro è diventato presidente (1 gennaio 2019) la deforestazione nell’Amazzonia brasiliana è aumentata del 50%. Raddoppiate le invasioni nei territori protetti, con saccheggi, omicidi e violenze a danno dei nativi. Bolsonaro sta consentendo ai privati di saccheggiare la più grande foresta tropicale del mondo.
Bolsonaro denunciato per genocidio
Il principio del “marco temporal” è contenuto in un più ampio disegno di legge (il PL 490) che, se approvato, permetterebbe di sottrarre aree all’usufrutto esclusivo delle popolazioni indigene, quando vi siano, ad esempio, “interessi minerari” oppure un "rilevante interesse pubblico”. «Queste ipotesi non sono consentite dalla Costituzione», sostiene Juliana de Paula Batista, avvocato dell’Instituto Socioambiental. L’Associazione dei Popoli Indigeni del Brasile (APIB) ha denunciato poche settimane fa il presidente Bolsonaro all’International Criminal Court dell’Aja (ICC) chiedendo l’apertura di un’inchiesta per i crimini di genocidio, ecocidio e politica anti-indigena. «Vista l’incapacità dell’attuale sistema giudiziario in Brasile di indagare, processare e imprigionare i responsabili di azioni che costituiscono crimini contro l’umanità, genocidio ed ecocidio, siamo costretti a rivolgerci alla comunità internazionale», ha dichiarato Eloy Terena, avvocato, ricercatore e attivista per i diritti degli indigeni e coordinatore giuridico dell’APIB.
Migliaia di indios (si calcola seimila, in rappresentanza di 176 tribù) hanno invaso dal 22 agosto scorso Praça dos Três Poderes (la piazza dei Tre Poteri) a Brasilia, chiamata così proprio perché ospita le sedi dei palazzi istituzionali (esecutivo, legislativo e giudiziario). Protestano contro le politiche anti-indigene messe in atto dal Governo Federale. Si sono accampati (dopo viaggi durati giorni e giorni, nelle condizioni più difficili) per quella che hanno chiamato la loro “Luta pela vida”, la lotta per la vita, per la sopravvivenza. E aspettano la sentenza (seguendo le fasi del dibattimento attraverso un maxi-schermo installato sulla piazza) che inizialmente era prevista per giovedì scorso. Ma l’udienza è stata rinviata di una settimana dopo che il relatore, il giudice Edson Fachin, ha riconosciuto il «carattere originario» dei diritti degli indios, schierandosi contro il provvedimento chiesto dal governo. «La perdita della proprietà delle terre tradizionali da parte della comunità indigena significa il progressivo etnocidio della loro cultura», ha sostenuto il giudice. «La dispersione dei membri indigeni di quel gruppo, oltre a gettare queste persone in una situazione di miseria, nega loro il diritto all'identità e alla differenza in relazione al modo di vivere della società circostante, massima espressione del pluralismo politico stabilito dall’articolo 1 del testo costituzionale». Un buon punto di partenza per i nativi. L’udienza riprenderà mercoledì 1 settembre.
Un pericoloso scontro istituzionale
Bolsonaro ha fiutato il cambio di vento, anche perché sta aumentando l’attenzione internazionale sul tema. E ha già dichiarato che non accetterà la decisione del Tribunale Supremo Federale qualora la sentenza fosse a favore delle popolazioni indigene. «Ho due opzioni, non ve le dirò ora, ma ho già deciso quale sarà: è quella che interessa al popolo brasiliano, quella che sarà accanto alla nostra Costituzione». Uno scontro istituzionale frontale che potrebbe portare gravissime conseguenze. «Il Brasile ha oggi due poteri, l'esecutivo e il legislativo, che lavorano in armonia», ha sostenuto Bolsonaro, escludendo la magistratura. Molto più che una “pressione”: è una minaccia sfacciata ai giudici che nelle prossime ore dovranno prendere una decisione cruciale per il futuro delle popolazioni indigene, ma a questo punto del Brasile stesso. Un presidente non può estromettere la magistratura per un capriccio: un simile colpo di spugna può passare soltanto attraverso un colpo di stato. E non è detto, anzi, che Bolsonaro abbia la solidità per tentarlo.
Ma lui, il presidente, si muove ormai come se avesse l’acqua alla gola. Quindi disposto a qualsiasi gesto, anche il più distruttivo, pur di garantirsi una via d’uscita. Le prossime elezioni presidenziali si terranno tra poco più di un anno, a ottobre 2022. E stando ai sondaggi attualmente è Lula (Luiz Inácio da Silva), ex presidente brasiliano e nuovamente candidato della sinistra, in testa con il 40% delle preferenze, contro il 24% di Bolsonaro, che paga la gestione irresponsabile della pandemia (c’è anche un’indagine del Senato nei suoi confronti). Negazionista del Covid, xenofobo, omofobo: tra i più convinti sostenitori dell’attuale presidente ci sono le chiese evangeliche brasiliane. E sabato scorso, proprio durante una funzione religiosa nella città di Goiânia, Bolsonaro ha parlato del suo futuro (naturalmente senza indossare la mascherina): «Ci sono tre possibilità: potrei essere arrestato, essere ucciso o vincere le elezioni». Per poi incitare i brasiliani ad armarsi: «Ogni cittadino dovrebbe comprare un fucile», ha sostenuto. «Nessuno dovrebbe permettersi di infastidire e boicottare produttori, distributori e rivenditori di armi».
Le popolazioni indigene sono oggi certamente di fronte a un bivio, l’ennesimo, della loro storia. Come l’Amazzonia. Come l’intero Brasile. E tutto per i capricci di un aspirante dittatore, prigioniero della sua stessa fragilità.