SOCIETÀ

Campioni di umanità, tra sport e politica

Ci sono casi in cui di fronte all'impegno degli sportivi si può solo applaudire: è quello che è successo a Sinisa Mihajlovic che ieri è tornato sulla panchina del Verona dopo 40 giorni di ricovero per una leucemia: visibilmente provato, ha scelto comunque di stare vicino alla sua squadra, suscitando l'ammirazione di tifosi e avversari.

Quando però si parla di argomenti scottanti, a volte gli sportivi finiscono in mezzo a un fuoco incrociato che ammicca alla politica, un po' come, in ambito diverso, è successo a Mamhood nell'ultimo Festival di Sanremo: il giorno dopo tutti parlavano della sua nazionalità (italiana, ma per molti era incredibile) e pochissimi della sua canzone. Così è successo a Jesse Owens, famoso per i quattro ori vinti alle Olimpiadi del 1936 "alla faccia di Hitler", che non lo salutò quando passò sotto la tribuna d'onore. In realtà le cose non sono andate così: nella sua autobiografia Owens scrisse che Hitler gli rivolse un cenno, e che, ovviamente senza alcun intento di scusare il Führer, si era sentito molto più a disagio nella sua America, dove era sempre obbligato ad entrare dalla porta di servizio, per non parlare del fatto che non gli arrivò mai il telegramma di congratulazioni del presidente Roosvelt (regolarmente inviato, invece, al connazionale Glenn Morris).

Altre volte però sono gli sportivi stessi che si fanno portatori di ideali che possono essere strumentalizzati dalla politica, ma che invece dovrebbero essere universali e andare oltre le logiche di partito. Di recente si è parlato molto di calcio femminile ed è finalmente venuto alla luce un aspetto che non si riscontra solo nello sport, ma in tutti i settori, il cosiddetto gender pay gap, la disparità di stipendio tra uomini e donne a parità di mansione. Le americane, che hanno vinto il Mondiale, hanno fatto causa alla U.S Soccer per la netta differenza dei compensi rispetto ai colleghi maschi, che tra l'altro non se la cavano altrettanto bene a livello sportivo: la squadra femminile, anche prima dell’ultima vittoria, era al primo posto nel ranking Fifa/Coca-Cola, mentre la nazionale maschile deve accontentarsi del 22esimo. E Megan Rapinoe, capitano della nazionale americana, aveva messo le mani avanti con Donald Trump ancora prima della vittoria: se il presidente avesse invitato la squadra alla Casa Bianca, lei non si sarebbe presentata, visti (e letti su twitter) i messaggi di esclusione che arrivano periodicamente dall'attuale ospite contro la comunità LGBT che Rapinoe rappresenta. Anche per questo, durante i mondiali, si è rifiutata di cantare l’inno.

Lo stesso aveva fatto, prima delle elezioni, anche Colin Kaepernick, quarterback della squadra di football dei San Francisco 49ers. Inizialmente aveva scelto di rimanere seduto durante l’esecuzione dell’inno americano dicendo a NFL Media: “Non starò in piedi per dimostrare il mio orgoglio per la bandiera di un paese che opprime i neri e le minoranze etniche. Per me è più importante del football, e sarebbe egoista guardare dall’altra parte. Ci sono cadaveri per le strade, e persone che la fanno franca”. La sua squadra, pur ribadendo l’importanza dell’inno nazionale, aveva difeso il giocatore, dicendo che era un suo diritto rifiutarsi di alzarsi in piedi, proprio per mettere in pratica il principio di libertà che sta alla base della nazione americana. In compenso Trump, all’epoca candidato alla presidenza, lo aveva invitato a cercarsi un paese all’altezza dei suoi ideali. Anche una persona che forse avrebbe dovuto sostenere la protesta, il commentatore sportivo Rodney Harrison, aveva spiegato candidamente che Kaepernick non era abbastanza nero per farsi portavoce di una protesta del genere (poi si era scusato, ma aveva comunque portato alla luce un pensiero comune tra molti neri che si limitavano a scriverlo sui social: per lamentarti del razzismo in America, a quanto pare, bisogna essere neri scuri). In seguito Kaepernick aveva cominciato a inginocchiarsi, perché anche se non rispettava la bandiera, rispettava invece i soldati che combattevano in nome di essa. La protesta non finisce bene, visto che la NFL (National Football League) l’anno scorso ha deciso di vietare ai giocatori di sedersi, inginocchiarsi o tenere le braccia conserte durante l’inno. Al massimo, se proprio vogliono protestare, possono rimanere in spogliatoio (perché la protesta è tollerabile, purché non salti troppo all’occhio).

Del resto personaggi così impegnati non sono una novità: dietro lo sportivo c’è sempre l’uomo, e gli ideali non sono riservati a politici e attivisti. Solo su Cassius Clay, alias Muhammad Ali, sarebbe da scrivere una pagina a parte, ma ci sono anche personaggi meno conosciuti che hanno avuto ruoli importanti nelle battaglie ideologiche: ci fu addirittura una squadra che applicò un modello ideologico alla sua gestione. Era il Corinthians, squadra brasiliana che negli anni Ottanta era diventato l’emblema della democrazia: le decisioni non venivano prese dalla dirigenza, ma dopo una votazione in cui il voto di ognuno valeva come quello degli altri (pare che venissero individuate così anche le formazioni da schierare).

Il problema sorge però quando si prende l'umanità (che dovrebbe essere un valore extra partitico) con la politica: gli juventini ricorderanno certo di quando Claudio Marchisio aveva scritto un post in cui si rammaricava delle morti in mare ed era stato insultato da parte dei suoi stessi tifosi. Alcuni si erano limitati ad invitarlo a pensare alla Champion’s altri a “portarseli a casa sua”. Ma anche se la politica non c'entra nemmeno facendo largo uso di salti logici, le cose non vanno meglio: Astutillo Malgioglio, da sempre impegnato nel sostegno ai bambini distrofici, veniva spesso insultato dai tifosi ma, cosa molto più grave, durante il match contro il Vicenza del marzo '86 erano stati insultati i "suoi" bambini. A quel punto Malgioglio aveva perso il controllo e sputato sulla maglia che portava, fatto di cui si pentì subito, anche perché il contratto con la Lazio fu rescisso. In seguito fu portato all'Inter su iniziativa di Giovanni Trapattoni, e quando si presentò sotto la curva della Lazio con un mazzo di fiori diventò il bersaglio di un selvaggio lancio di oggetti, uno dei quali lo ferì al volto.

Chi pensa che Malgioglio fu trattato ingiustamente, probabilmente si rammaricherà anche per uno sportivo che per i suoi ideali ha perso la vita: secondo le fonti dello storico ungherese Gábor Andreides, Géza Kertész, allenatore dell’Ujpest (passato anche in Italia sulle panchine di Atalanta e Catania) ha passato gli ultimi anni di carriera a salvare gli ebrei dalla deportazione in Polonia e Germania. Le sue gesta sarebbero state poi nascoste dal regime comunista perché la rete clandestina di cui faceva parte Géza Kertész era composta da liberali e non da comunisti, a riprova del fatto che il rispetto per la vita umana non ha colore politico. Sapeva di correre un grosso rischio, e infatti nel 1945 fu tradito (nascondeva un ebreo in casa) e fucilato nell’atrio del palazzo reale di Buda.

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