CULTURA

Clinton, Fragolino e Bacò: storie di vini proibiti

In Canale Mussolini Antonio Pennacchi cita più volte il Clinto o Clinton, "anche se noi diciamo Clintón", con l’accento sulla ó, nel tentativo - forse - di renderlo più vigoroso, tenace, per radicarlo saldamente a terra. Ritroviamo il Clintón di Pennacchi nella prefazione di Elisabetta Tiveron del libro Vini proibiti. Clinton, Fragolino, Bacò e gli altri vitigni ribelli, edito da Kellermann, per la collana Grado Babo, scritto da Angelo Costacurta con Michele Borgo. Questo vino rosso dal sapore antico, poco e mal conosciuto, attraversa dunque le pagine del romanzo che nel 2010 vinse il premio Strega e così viene descritto: "Oggi questo vitigno è proibito in tutta l’Unione Europea (…) per l’altissima concentrazione di metanolo, lesiva del nervo ottico e delle cellule cerebrali. Insomma, è un’arma di distruzione di massa: o muori o resti cieco e scemo. Però era anche buono e – se le interessa – gliene posso far trovare ancora qualche bottiglia perché, nascosto come un clandestino ma coccolato più di un calciatore, se ne trova ancora qualche vigneto in Veneto, Friuli e Agro Pontino appunto. Ma non lo dica all’Unione Europea".

Il Clinton non è il solo vino proibito, e non lo è 'solamente' per la ragioni qui sopra riportate. Rintracciare le origini dei “ribelli” richiede uno sforzo, autentico interesse e passione per la materia: significa prima di tutto intraprendere un viaggio nel tempo tornando indietro di quasi duecento anni, "per capire il perché della loro storia, nata per le necessità emerse nei principali Paesi viticoli dell’Europa e non per puro e semplice interesse di innovazione. Si trattava infatti di porre rimedio a una serie di situazioni fitosanitarie succedutesi, una dopo l’altra, per cause pressoché accidentali. Un tuffo nel passato che ci obbliga a rileggere indagini e studi biologici ed epidemiologici su tre avversità parassitarie della vite, per cercare di capire la situazione sorta in Europa a partire dalla metà dell’Ottocento con l’arrivo dell’oidio, della fillossera e della peronospora. Tre avversità che, da quel momento, hanno cambiato la millenaria storia vitivinicola mondiale".

Abbiamo chiesto all'autore Angelo Costacurta di approfondire l'argomento, ripercorrendo l'intrigante vicenda dei cosiddetti vini proibiti. "All'inizio dell'Ottocento vi fu un gran movimento di giardinieri e botanici tra Vecchio Continente e Americhe. Piante come la Isabella, forse la prima a essere utilizzata in enologia, non sono arrivate come rimedio alle malattie della vite, la storia inizia prima. Anzi, di più: potrebbero essere state proprio queste piante a portare le malattie. Le collezioni esistevano alla corte di Vienna, in giro per la Francia e anche in Italia: i collezionisti iniziarono a prendere le piante dagli Stati Uniti a partire dall'inizio dell'Ottocento, ma forse già prima, non si può escludere. Insomma esisteva un importante e continuo scambio, non solo dall'America all'Europa ma anche viceversa: pensiamo al Primitivo, prelevato da un americano da una collezione di Vienna e portato negli Stati Uniti. Questo continuo scambio di piante con l'America può aver favorito l'introduzione delle malattie della vite. Consideriamo, per esempio, la fillossera: sulle foglie delle viti americane c'erano degli insetti che, non provocavano danni alle radici e quindi permettevano alla pianta di sopravvivere. Ma cosa accade? Arrivate in Europa sono proprio le radici - risparmiate invece in America - a essere attaccate". 

Le tre malattie della vite: la trilogia parassitaria ottocentesca

"Per l'oidio il rimedio viene trovato con lo zolfo, per la peronospora la soluzione è la famosa poltiglia bordolese. In Italia la prima segnalazione di fillossera risale al 1901 ma, con buon probabilità, la malattia era già arrivata da noi verso la fine dell'Ottocento - spiega Costacurta -. Con la fillossera, che attaccava le radici delle viti distruggendole, non ci fu nulla da fare: tutti i tentativi fatti per combatterla fallirono. In Francia il governo aveva addirittura messo in palio dei premi per chi fosse riuscito a debellarla, i premi non furono mai incassati. A quel punto, andando a vedere le origini della fillossera per trovare viti in grado di resistere, si scelse di avviare l'importazione di piante americane. Lo stesso si fece per combattere l'oidio e la peronospora, perché si iniziò a capire che se le malattie arrivavano dall'America lì dovevano esserci viti in grado di resistere. La prima ad arrivare fu l'uva Isabella, dal nome di una collezionista americana. Giunse inizialmente per le collezioni, poi invece venne importata per fare vigneti".

I primi ibridi produttori diretti 

"Per sostituire i vigneti distrutti dalla fillossera e per i nuovi impianti, in un primo momento vennero utilizzati in gran parte ibridi naturali di Vitis Labrusca come l’Isabella, il Clinton, lo York Madeira, l’Othello, il Concord, il Noah, lo Jaquez", si legge nel libro. Vengono definiti come ibridi i vitigni derivanti da incroci naturali o effettuati dall’uomo tra differenti specie di Vitis; quelli sopracitati erano vitigni ibridi, definiti genericamente 'produttori diretti' (IPD), perché coltivati franchi di piede. Alla prima generazione appartengono le prime piante americane: "Non erano frutto di incroci fatti all'uomo, erano naturalmente così. Ognuno con la sua storia, ovviamente", spiega Costacurta a Il Bo Live.

"L’Isabella è conosciuta con vari nomi in diverse parti del mondo: Uva fragola, Raisin fraise, Garden’s red-fox, Raisin framboise, Raisin du Cap, Sainte-Héléne, Isabelle d’Amerique. È l’ibrido produttore diretto più antico introdotto in Europa e il solo a essere coltivato prima dell’arrivo della fillossera".

Oltre all'Isabella, dunque, troviamo il Clinton, che l'appassionato veneto - ricordiamolo - pronuncia ponendo quel deciso accento sulla 'o': Clintón. Conosciuto negli Stati Uniti fin dal 1835, prima con il nome di Wortinton, altrove invece come Plant des Carmes, Plant Pouzin, inizia a diffondersi come Clinton a partire dal 1870, prendendo il nome da una città dello Iowa da cui provenivano le casse che trasportavano in Europa le piantine del vitigno. "È stato il primo a essere utilizzato, su una grande superficie, nel sud della Francia come portainnesto nella ricostituzione post-fillosserica. È un ibrido di Riparia per Labrusca che prosperava meglio di altri ibridi di Labrusca come l’Isabella e il Concord per la sua minore sensibilità alla fillossera e il superiore adattamento ai terreni [...] Per la sua buona produttività e resistenza alle crittogame (può far a meno spesso dei trattamenti anticrittogamici) fu utilizzato largamente come IPD, prima in Francia, e successivamente anche in Italia, nella ricostituzione post-fillosserica [...] Nel 1856 era presente nella collezione di Caccianiga a Treviso; alcuni anni dopo in questa provincia si trovavano numerosi biotipi di Clinton".

Nel quadro storico dei cosiddetti vini proibiti, il Clinton gioca un ruolo centrale: potremmo definirlo sua maestà il ribelle. Il suo vino rosso-rubino è discretamente alcolico e invecchia bene. In Veneto divenne estremamente popolare, e ancora oggi è al centro di conversazioni e inconfessabili desideri di assaggio.

Gli ibridi produttori diretti di seconda generazione

Nel titolo del libro troviamo anche il Bacò, un ibrido produttore diretto di seconda generazione. Che cosa significa? Spiega Costacurta: "I vecchi ibridi produttori diretti non davano soddisfazione, soprattutto per il sapore: i vini non risultavano all'altezza delle varietà europee. Si tentarono incroci nuovi, incrociando le viti europee non solo con la Labrusca, madre della Isabella e del Clinton, ma anche con altre specie americane: la Riparia, la Rupestris, per esempio. Si scatenarono tutti, dalla Francia alla Germania, creando migliaia di nuove varietà e dando vita a quella che venne chiamata la 'selva selvaggia'. Non ci furono però grandi miglioramenti, e questo per incompatibilità tra qualità del vino e resistenza alle malattie: più resistente era la pianta, meno il vino era buono, e viceversa". La fillossera, in particolare, continuava ad attaccare le viti. La soluzione non si troverà coltivando le piante americane, ma innestando le europee su piante americane: facendo così verrà debellata.

Vini proibiti (quindi desiderati)

Perché la coltivazione degli ibridi produttori diretti è continuata anche superando gli iniziali intenti di risoluzione delle malattie della vite? Perché in mezzo c'è stata la guerra e una profonda povertà, "fare i trattamenti costava, il rame e lo zolfo non si trovavano più: non c'erano molte altre alternative, i contadini cominciano a coltivare il Clinton, il Bacò e gli altri della 'selva selvaggia' perché non avevano bisogno di trattamenti con rame e con zolfo. Questo ha permesso a queste viti di diffondersi moltissimo: pur di aver qualcosa da bere, alla gente questi vini andavano bene. Si tendeva a piantare solo questi, ovunque. Il rischio era però quello di far sparire le nostre varietà più prestigiose: il Merlot, il Cabernet, il Pinot, lo Chardonnay, il Prosecco".

Nel 1931 arriva la legge che vieta l'impianto e la produzione di queste viti, salvo per uso familiare. "Venne promulgata una prima legge il 23 marzo 1931, la n. 376 che dopo successive modificazioni venne ridotta a Testo Unico col R.D. 16 luglio 1936 n. 1634 - si legge nel libro -. In forza di tale legge, la coltura degli ibridi venne vietata ovunque salvo che nei vigneti di sperimentazione e di studio nonché nelle province nelle quali il ministro dell’Agricoltura (allora era Giacomo Acerbo, insignito nel 1924 del titolo di barone dell’Aterno) e gli organi sindacali fascisti ne avessero riconosciuta l’utilità. Venne compresa anche l’Isabella, fatta eccezione per la produzione di uva da consumo diretto". Anche in Francia ne fu vietata la coltivazione.

Ragioni economiche e ragioni relative alla salute. I rischi ovviamente ci sono, o meglio, c’erano. "Queste varietà hanno un contenuto in pectine nella buccia superiore alla media - precisa Costacurta - se restano a fermentare molto si trasformano in alcol metilico dannoso per la vista, per cui questi ibridi produttori diretti, fatti con i metodi di una volta, venivano fatti fermentare anche un mese e potevano presentare dei rischi. Oggi con le moderne tecniche di vinificazione queste varietà non hanno metilico più del merlot e del cabernet". Ma il problema, con conseguente divieto di produzione, era anche (per Costacurta, "soprattutto") legato al rischio di perdere tutte le altre varietà "in favore di una viticoltura di sopravvivenza", in favore di un vino, come il Clinton, che bevevano i nostri soldati ma che, infine, superate le difficoltà di guerre ed estrema povertà, doveva essere sacrificato per salvaguardare la qualità e la varietà di altri vini. Nel Veneto orientale, in particolare, si è continuato a coltivare, insieme al Bacò. Oggi ci sono ancora estimatori del Clinton perché "è un vino diverso dagli altri e con le nuove tecniche di vinificazione è anche discreto".

Si legge nel libro: "Le piante di viti delle varietà americane, o di tale ascendenza, sono ancora oggi ben presenti nel paesaggio italiano. Di frequente si incontrano nei giardini delle case in campagna, dove fanno bella mostra di sé in forma di ombrose pergole, come quelle di cui si è poc’anzi parlato. Si badi bene, non si tratta di semplici presenze decorative. Queste uve godono di un’affezionata platea di estimatori, che ne apprezzano i sapori e le consistenze particolari, introvabili tra le varietà da tavola in commercio. Ci troviamo quindi di fronte a piante che offrono una molteplicità di impieghi, che uniscono l’utilità al piacere. Il palato è appagato dai frutti allo stato naturale, ma anche dalle ricette in cui entrano, in particolare dolci", dalla Ciaccia con l'uva fragola ai Sugoli di mosto d'uva Clinton

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