SOCIETÀ

I conflitti di interesse che ritardano il trattato internazionale sulla plastica

A fine aprile si è concluso a Ottawa, in Canada, il quarto giro di negoziati intermedi per un trattato internazionale sulla produzione e la gestione della plastica, sotto l’egida del Programma ambientale delle Nazioni Unite (Unep). L’ambizione è quella di approdare a un testo condiviso da tutti i Paesi membri entro la fine dell’anno, quando a novembre in Corea del Sud, a Busan, si riunirà il quinto e conclusivo comitato, prima dell’auspicata ratifica del trattato, che potrebbe rappresentare per la lotta all’inquinamento da plastica ciò che l’accordo di Parigi rappresenta per la lotta al cambiamento climatico.

È di marzo 2022 la storica risoluzione della quinta assemblea generale dell’Unep che impegna i 193 Paesi membri a sottoscrivere un trattato legalmente vincolante sulla fine dell’inquinamento da plastica. A dicembre dello stesso anno inizia la prima sessione di negoziati in Uruguay, la seconda si tiene a Parigi a giugno 2023 e la terza a novembre 2023 a Nairobi, in Kenya. A ogni incontro però i progressi sono lenti e faticosi.

La divergenza di vedute è rimasta ampia anche tra i circa 2.500 delegati di 170 Paesi e 480 enti osservatori (tra organizzazioni internazionali, non governative e dell’Onu) che si sono riuniti a Ottawa. L’obiettivo era quello di snellire il documento di circa 70 pagine uscito da Nairobi: le parentesi nel testo indicano i passaggi che ancora necessitano di venire concordati e quelle della bozza prodotta a Ottawa sono quasi raddoppiate rispetto alla versione di sei mesi fa.

I principali punti di discussione ruotano intorno a quattro termini che iniziano con la ‘R’. Il Riutilizzo indica la lotta alla cultura dell’usa-e-getta e la necessità di tenere in vita un prodotto il più a lungo possibile, dandogli anche una seconda o terza vita. Il Riciclo si innesta alla fase successiva, recuperando le materie del prodotto giunto a fine vita e impiegandole come nuove materie prime. Entrambe queste ‘R’ vanno fatte crescere: secondo un rapporto dell’Unep pubblicato l’anno scorso, a livello globale solo il 9% della plastica viene riciclato. Occorre inoltre investire su materiali alternativi, come le bioplastiche: si parla per questo di Riorientare o diversificare il mercato della plastica.

È tuttavia una quarta ‘R’, che sta a monte delle altre tre, il piano su cui si gioca la partita più importante e su cui ci sono state le più feroci divisioni a Ottawa: è quella relativa alla Riduzione della produzione di plastica.

Ogni anno più di 450 milioni di tonnellate di plastica vengono messe in commercio e una buona parte si degrada in piccolissimi frammenti, nano e microplastiche, che si disperdono in ambiente, terrestre e acquatico, ed entrano nella catena alimentare degli organismi viventi. La loro presenza è ormai ubiquitaria, dal ghiaccio antartico alla neve dell’Artico, sono state trovate sul monte Everest e negli oceani, persino nel sangue umano e nella placenta dei neonati.

La struttura di alcune di queste particelle è simile ad alcuni ormoni, pertanto possono diventare interferenti endocrini e minacciare la salute sia degli umani sia di altre specie viventi e dei loro ecosistemi.

Inoltre, alcune sostanze chimiche che vengono usate per trattare la plastica, come i PFAS (sostanze per- e polifluoroalchiliche), hanno una struttura molecolare quasi impossibile da degradare, il che ha fatto loro guadagnare la nomea di inquinanti eterni.

Il settore della plastica è anche responsabile dell’emissione di quasi 2 miliardi di tonnellate di CO2 ogni anno, circa il 3% delle emissioni globali.

Oggi la quantità di plastica prodotta annualmente a livello globale è due volte rispetto a quella di 20 anni fa e se le cose non cambiano potrebbe raddoppiare ulteriormente o anche triplicare entro metà secolo. Ecco perché il rapporto dell’Unep pubblicato l’anno scorso si intitolava Turning off the tap, chiudere il rubinetto: ogni azione di contrasto all’inquinamento da plastica deve necessariamente passare per una drastica riduzione della produzione globale.

Alcuni Paesi e aziende però non sono d’accordo. La quasi totalità della plastica viene prodotta a partire da sostanze chimiche che vengono derivate dai combustibili fossili: le due industrie sono quindi strettamente legate. Con la transizione energetica verso fonti rinnovabili che prospetta di ridurre la dipendenza da combustibili fossili negli anni a venire, la produzione di plastica è diventata l’alternativa dell’industria petrolifera per mantenere il business as usual e i livelli di profitto cui è abituata.

I Paesi che si oppongono al taglio della produzione di plastica sono infatti Arabia Saudita, Russia e Iran, le cui economie sono incentrate sul continuo flusso di combustibili fossili. Il loro impegno negoziale, e quello dei delegati delle industrie chimiche e fossili, è tutto incentrato sull’implementazione di pratiche di economia circolare, quindi riutilizzo e riciclo, per impedire che venga toccata la produzione a monte.

Già alla vigilia dei negoziati di Ottawa, Nature aveva denunciato che la comunità scientifica rischiava di restare sostanzialmente esclusa e inascoltata in quello che dovrebbe essere un processo decisionale basato sulle evidenze scientifiche a disposizione. “Molti scienziati non sono stati in grado di ricevere l’accreditamento per i primi tre giri negoziali. Questo perché le università pubbliche sono state incluse nella categoria ‘governi’, il che ha comportato che i ricercatori avrebbero dovuto registrarsi come rappresentanti governativi, che non sono”. La conseguenza è che a Nairobi i delegati delle industrie fossili, chimiche e plastiche erano 4 volte più dei ricercatori indipendenti.

Secondo Martin Wagner, professore di tossicologia ambientale all’università di Tordheim in Norvegia che è intervenuto su Nature, “i lobbysiti operano più clandestinamente di quanto non facciano i ricercatori, attraverso strategie decise dietro porte chiuse”. Così come l’industria delle sigarette ha per anni minimizzato la correlazione tra fumo di tabacco e cancro ai polmoni, e così come l’industria energetica ha fatto altrettanto per quella tra emissioni di CO2 e riscaldamento globale, secondo Wagner i Paesi e le industrie con interessi nel settore “mettono in dubbio la ricerca sulla plastica per rallentare i negoziati”.

Oggi è generalmente accettato dalla comunità scientifica che la dispersione di plastica in ambiente costituisca un rischio per la salute umana, oltre che per gli ecosistemi. Tuttavia è difficile quantificare esattamente questo rischio. “Nelle discussioni sul trattato, i lobbisti chiedono precise valutazioni del rischio che dimostrino l’impatto della plastica sulla salute umana, prima di intraprendere azioni che riducano la produzione, ma questo è un lavoro che richiede decenni”.

Per Wagner, è cruciale che le nazioni prendano iniziativa per limitare le influenze delle aziende sul trattato sulla plastica, soprattutto per quanto riguarda gli aspetti scientifici. “Dovrebbero venire applicate forti regole sul conflitto di interessi a tutte le questioni scientifiche. Ai partecipanti alle negoziazioni sul trattato e alla sua implementazione dovrebbe venir richiesto di dichiarare ogni legame all’industria dei combustibili fossili, chimica o della plastica. Rendere pubbliche queste dichiarazioni consentirebbe scrutinio e assegnazione di responsabilità. Le Nazioni Unite potrebbero supportare un meccanismo per verificare tali dichiarazioni, ad esempio”.

Le compagnie in conflitto di interessi inoltre promuovono studi, incontri e progetti di ricerca i cui risultati mostrano una mancanza di effetti nocivi. I decisori politici dovrebbero riuscire a isolare la discussione scientifica dall’influenza delle aziende. “La visione di chi fa affari dovrebbe concernere lo sviluppo di soluzioni, non dibattere la scienza. I due flussi dovrebbero restare separati. C’è un precedente: la Convenzione Quadro sul Controllo del Tabacco dell’Organizzazione Mondiale della Sanità esclude dai suoi lavori tutti gli esperti che hanno un legame con l’industria del tabacco”.

Ciò non significa che il dialogo tra scienza e portatori di interesse debba essere interrotto. “Sono consapevole che il settore privato non è monolitico e comprende attori che vogliono contribuire a un futuro migliore, supportando ad esempio la Business Coalition for Global Plastics Treaty” conclude Wagner. “Ma il settore privato deve guadagnarsi la fiducia ponendo fine ad attività che mirano a costruire dubbi. Le loro risorse sarebbero spese meglio investendo sull’innovazione di materiali e prodotti plastici sostenibili”.

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