SOCIETÀ

COP15 di Montreal: preservare la natura (e le persone)

I tre grandi obiettivi che dovranno guidare il prossimo decennio d’azione per la tutela della biodiversità sono l’uso sostenibile della biodiversità, la condivisione dei benefici derivanti dalle risorse genetiche e la conservazione.

La bozza più recente dell’accordo che è attualmente in corso di negoziazione a Montréal, in Canada, e che regolerà gli sforzi internazionali per fermare e invertire la tendenza di perdita di biodiversità entro il 2030, formalizzando il nuovo Global Biodiversity Framework, si articola in 22 obiettivi. I punti di intervento sono molti: dal contrasto all’estinzione di specie alla gestione della diffusione delle specie invasive, dalla regolamentazione dell’uso dei pesticidi alla definizione di un quadro per un’agricoltura realmente sostenibile e rispettosa delle risorse del pianeta.

Uno dei punti più noti di questo accordo – equiparato, da molti, all’obiettivo climatico di mantenere l’aumento delle temperature globali entro 1,5°C – è il cosiddetto “30x30”, ovvero l’ambizioso obiettivo di porre sotto protezione il 30% degli ecosistemi terrestri e marini del pianeta entro il 2030, attraverso l’istituzione di aree protette e altre misure di conservazione da attuare sul territorio.

L’individuazione di questo traguardo è senza dubbio un importante passo in avanti rispetto al target precedente, contenuto nello Strategic Plan for Biodiversity 2011-2020 stabilito a Nagoya, in Giappone, nell’ormai lontano 2010, che mirava a proteggere il 17% delle aree terrestri e il 10% di quelle marine entro il 2020 (obiettivo, peraltro, non raggiunto). La proposta di proteggere “metà della Terra” per salvare la diversità biologica che la contraddistingue, e che è oggi in grave e rapidissima diminuzione, era stata avanzata per la prima volta dal grande biologo Edward O. Wilson: l’idea fondante è che le specie viventi necessitino, per sopravvivere e prosperare, di ecosistemi sani, e che sia dunque necessario ridurre al minimo le pressioni antropiche dannose, accumulatesi soprattutto negli ultimi due secoli.

Secondo l’ultimo Biodiversity Global Assessment, rilasciato dall’IPBES nel 2019, i cinque principali fattori di cambiamento per le aree naturali sono, in ordine di importanza, i cambiamenti nell’uso del suolo e dei mari, lo sfruttamento diretto degli organismi, il cambiamento climatico, l’inquinamento e l’invasione di specie aliene. Il Global Biodiversity Framework che verrà stilato a Montreal deve affrontare tutti questi elementi di rischio, e deve farlo assicurando un tasso di successo ben superiore a quello degli Aichi Targets, che sono stati – come è unanimemente riconosciuto – un completo fallimento.

Considerando tali premesse, porre sotto protezione il 30% della Terra appare come una misura particolarmente auspicabile: estendendo in maniera così considerevole le aree libere dall’influenza delle attività umane, si ritiene che si creeranno, di fatto, vaste “isole” di biodiversità all’interno delle quali sarà possibile salvaguardare specie rare e preservare interi ecosistemi, garantendo così anche il mantenimento di quei servizi ecosistemici da cui le società umane dipendono in larga misura.


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La strada che dovrebbe portare a un accordo sul testo del nuovo Global Biodiversity Framework è costellata di ostacoli. La posta in gioco è alta (secondo uno studio pubblicato nel 2020 dalla compagnia assicurativa SwissRe, più di metà del PIL globale dipende direttamente o indirettamente da biodiversità e servizi ecosistemici), gli interessi posti a confronto sono molti e spesso contrastanti.

Più di altri, il target 3 dell’attuale bozza dell’accordo, che contiene la misura “30x30”, ha ricevuto critiche. A muovere i detrattori di questa proposta vi sono motivazioni eterogenee: alcuni, ad esempio, sostengono che – anche alla luce delle crescenti sfide poste dal cambiamento climatico – sarebbe necessario aumentare fino al 50% della Terra la percentuale di aree protette da realizzare, in linea con la proposta originale di Wilson. Solo in questo modo, affermano i titolari di questa obiezione, sarebbe possibile garantire la giusta connettività ecosistemica e far sì che siano posti sotto protezione tutti i tipi di ecosistemi esistenti sul pianeta.

Altri, invece, sottolineano come l’attuale formulazione dell’obiettivo – una misura quantitativa delle aree da proteggere – rischi di relegare in secondo piano l’importanza della valutazione qualitativa delle aree da proteggere, limitandosi a individuare un obiettivo numerico arbitrario, che non sarebbe supportato da sufficienti evidenze scientifiche.

Una delle critiche più circostanziate mosse all’obiettivo di aumentare sensibilmente l’estensione delle aree protette a livello globale è quella che proviene dai rappresentanti dei popoli indigeni e dalle organizzazioni che contribuiscono a tutelarne i diritti.

Ancora oggi, denunciano le popolazioni indigene, le pratiche di conservazione della natura sono fortemente “occidentalocentriche”, e mantengono un approccio implicitamente coloniale. Nella maggior parte dei casi, l’istituzione di aree protette implica l’espulsione – in alcuni casi, persino la deportazione – dei popoli che vi abitano da tempo immemore, gestendoli in modo sostenibile e tutelandone l’integrità degli ecosistemi.

Qualora questo schema non venisse sovvertito, l’attuazione del programma di proteggere il 30% della Terra entro i prossimi otto anni potrebbe rivelarsi «il più grande furto di terra della storia», con gravissime violazioni dei diritti umani. I popoli indigeni e le comunità tradizionali guardano con preoccupazione all’esito di questa Conferenza delle Parti: temono – a ragione – che le loro voci non vengano ascoltate.

Le loro apprensioni sono state raccolte in una lettera indirizzata alla Conferenza delle Nazioni Unite sulla Biodiversità e cofirmata, insieme ai rappresentanti di molti popoli indigeni, anche da importanti ONG come Survival International, Amnesty International, Minority Rights Group International e Rainforest Foundation UK. Quel che le popolazioni indigene chiedono non è certo l’eliminazione tout court di questa misura, la cui importanza per la preservazione della diversità biologica ed ecologica è indubbia; tuttavia, è inaccettabile che ciò avvenga nella completa negazione dei diritti e – dato non trascurabile – dei valori e delle conoscenze ecologiche di cui, invece, queste popolazioni chiedono il riconoscimento.

Il fatto che l’attuazione di misure di conservazione implichi la completa eliminazione di qualunque traccia umana da un territorio è infatti non solo estremamente dannoso per le comunità che subiscono tali soluzioni senza avere possibilità di esprimersi nel merito, ma anche sbagliato da un punto di vista scientifico. È ormai ampiamente dimostrato, infatti, che le popolazioni umane – in particolar modo quelle indigene, che hanno spesso un legame plurisecolare con gli ecosistemi locali e sono depositarie di un amplissimo ventaglio di conoscenze sulle loro funzioni – siano elementi chiave degli ecosistemi stessi, tanto che la loro eliminazione può causare semplificazione e persino mutamenti sostanziali nella comunità ecologica.

«La misura “30x30”», si legge nella lettera indirizzata ai delegati della Conferenza sulla Biodiversità, «mette a rischio le nostre tradizioni culturali e spirituali in quanto guardiani della biodiversità della Terra fin dall’inizio dei tempi». Le popolazioni indigene non sono coinvolte, ad oggi, nei momenti clou delle negoziazioni: in questo modo, vi è il rischio concreto che alla loro prospettiva – pur così centrale nel decidere il destino di territori a cui essi sono storicamente legati – non venga data la giusta importanza, e che dunque si mantenga, nell’ambito della conservazione, l’approccio occidentale di stampo colonialista che gli indigeni stessi denunciano.

Una più estesa rete di protezione del mondo naturale è quanto mai necessaria, e la politica del “30x30” si muove, in linea generale, nella giusta direzione. Non deve cambiare tanto il cosa, dunque, quanto il come. Bisogna fare in modo che le nuove aree protette non divengano un business per gli imprenditori turistici, ad esempio, e che vengano presidiate come “fortezze” per far sì che gli (ex) abitanti, una volta sfrattati, non cerchino di ritornare alle proprie terre; è necessario adottare politiche di conservazione più inclusive, che tengano in considerazione al tempo stesso e con lo stesso impegno tanto la salvaguardia della biodiversità quanto la tutela dei diritti umani di coloro che all’interno delle cosiddette “riserve” hanno sempre vissuto.

Nella gestione della conservazione devono essere coinvolti anche i popoli indigeni, il cui contributo è fondamentale per il successo di queste iniziative. Lo dimostrano alcuni esempi provenienti proprio dal Canada, paese ospitante di questa ultima tranche di negoziati sulla biodiversità, dove la gestione congiunta di aree protette tra governo e First Nations sta dando buoni frutti.

I casi positivi da cui trarre spunti non mancano; come in ogni processo negoziale, però, bisognerà scendere a patti e accettare un risultato che sarà con ogni probabilità subottimale, in quanto non completamente soddisfacente per nessuna delle parti in causa. È necessario, tuttavia, che vengano individuati dei capisaldi comuni e condivisi: tra questi, “decolonizzare la conservazione” deve essere una priorità, perché nessuna politica di conservazione che ignori le complesse interazioni tra umani e mondo naturale potrà mai avere successo.

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