SCIENZA E RICERCA

COP25 di Madrid, Greenpeace: "Decarbonizzare è possibile e necessario"

Per l'umanità è arrivato il momento di scegliere. E le opzioni sono la speranza, accompagnata da azioni concrete a salvaguardia dell'ambiente, o la capitolazione. È il monito lanciato dal segretario generale dell'Onu Antonio Guterres all'apertura della COP25, la riunione dei quasi 200 paesi del mondo firmatari dell'accordo di Parigi che è in corso di svolgimento a Madrid. Indetta annualmente dalle Nazioni Unite per mettere a punto le strategie di contrasto ai cambiamenti climatici, l'edizione numero 25 della Conferenza arriva in un momento in cui le decisioni mirate alla riduzione dei gas serra non possono più essere rimandate. L'ultimo rapporto dell'Onu parla chiaro: per impedire alle temperature globali di aumentare oltre la soglia di 1,5 gradi, occorre ridurre le emissioni inquinanti del 7,5% all'anno, da qui al 2030. Gli obiettivi fissati in precedenza (ed evidentemente non sempre rispettati, considerando che le emissioni inquinanti continuano a crescere) non sono più sufficienti: se anche tutti Stati rispettassero gli impegni sottoscritti con l’accordo di Parigi del 2015, la temperatura salirebbe di 3,2° rispetto all'epoca pre-industriale. E le conseguenze - aumento del livello dei mari, desertificazione, intensificazione e maggiore frequenza di fenomeni meteorologici estremi - si stanno già manifestando in tutta la loro evidenza. 

 

"Vogliamo portare tutti gli attori, statali e non, ad impegnarsi per la neutralità del carbonio da qui al 2050 e chiediamo al mondo di dare impulso alla trasformazione di cui abbiamo bisogno", ha detto Carolina Schmidt, presidente della conferenza e ministro dell'Ambiente del Cile, Paese che avrebbe dovuto ospitare la riunione, spostata a Madrid a causa dei disordini che hanno coinvolto la nazione sudamericana. 

Fin qui le dichiarazioni di intento. E la presa di coscienza dell'urgenza del problema. Ma dalle trattative, che hanno l'obiettivo di portare su un piano concreto gli impegni assunti ormai quattro anni fa a Parigi, si dovrà uscire con una definizione chiara di molti aspetti operativi, in un contesto globale reso ancora più complesso dal disimpegno dagli impegni sul clima deciso dal presidente americano Donald Trump, dalle politiche anti ambientaliste del presidente brasiliano Jair Messias Bolsonaro e dalle preoccupazioni sull'operato di Cina e India che stanno vivendo una fase di grande espansione della popolazione e dei consumi con un conseguente aumento delle emissioni inquinanti.

Abbiamo voluto approfondire queste tematiche con Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia, organizzazione internazionale che dagli anni '70 si batte per la difesa del clima e dell'ambiente. 

"Questa conferenza - spiega Onufrio - è una sezione negoziale che deve finire di scrivere le regole del trattato di Parigi e il nodo più importante riguarda il cosiddetto articolo 6 che regola la modalità con cui i diversi Paesi possono concorrere alla riduzione delle emissioni e come questa cooperazione viene contabilizzata. Faccio un esempio: ci può essere un Paese ricco che, prima di iniziare a fare misure più costose a casa, vuole ridurre le emissioni globali (ricordiamo che devono essere ridotte a livello globale, quindi non è importante dove vengono ridotte) e per questo motivo concorda con un paese terzo gli investimenti da fare in quel paese per ridurre le emissioni non a casa propria ma in quel paese. E’ necessario quindi stabilire delle regole per stabilire attraverso quali meccanismi contabilizzare quelle riduzioni delle emissioni. Alcuni Paesi, come il Brasile di Bolsonaro, vorrebbero non solo poter ricevere dei progetti di riduzione delle emissioni che generano dei crediti, ma vorrebbero anche che la contabilità nazionale li rispecchiasse e questo è inaccettabile perché avremmo un doppio conteggio. Ci sono poi alcuni aspetti tecnici che riguardano il trascinamento di accordi fatti nel protocollo di Kyoto e la cui validità è scaduta nel 2012. Quindi c’è un tentativo di alcuni paesi di annacquare gli effetti pratici degli accordi inserendo regole non sufficientemente rigorose. La Cop 25 deve chiudere questo capitolo altrimenti è difficile che i Paesi possano predisporre piani che abbiano una loro consistenza e serietà. Poi dobbiamo ricordare che a Parigi i Paesi si presentarono con degli obiettivi volontari che andavano poi rivisti e la revisione dovrebbe cominciare nel 2020".

A proposito della revisione degli impegni presi a Parigi è importante ricordare che "si è visto che la sommatoria degli impegni volontari dei diversi paesi non produce l’effetto voluto e che con quegli impegni, ammesso che vengano rispettati, porterebbero il pianeta a un aumento di temperatura di oltre 3 gradi su scala globale nel corso di questo secolo causando una catastrofe climatica".

Cosa deve quindi accadere? "Bisogna rimettere mano a questi impegni volontari - sostiene il direttore esecutivo di Greenpeace - alzando di molto l’ambizione. La commissione intergovernativa sui cambiamenti climatici dice che, per evitare il peggio, nei prossimi dieci anni dovremmo dimezzare le emissioni di gas a effetto serra e poi dopo il 2030 continuare a ridurla per arrivare nel 2050 a quella che viene chiamata una neutralità carbonica - cioè una sostanziale emissioni nette zero. Siamo su questa strada? La politica è su questa strada? Al momento no. Anche in Europa che ha una leadership che sta discutendo il pacchetto del Green New Deal, e quindi si sta attivando in questa direzione, vediamo che si fa fatica a rilevare un rilancio dell’impegno e tra i Paesi che cercano di frenare, oltre all’Europa dall’est, c’è anche l’Italia. Il nostro paese ha già detto, anche se su questo ci sono dichiarazioni contraddittorie, che il piano nazionale integrato energia e clima il governo non vuole cambiarlo, ma con quel piano è sicuro che la decarbonizzazione entro il 2050 non si può fare. Decarbonizzare significa azzerare le emissioni di anidride carbonica e di gas a effetto serra dell’economia".

La sfida della decarbonizzazione

Certamente quella della decarbonizzazione è una sfida estremamente impegnativa. Nell’ultimo decennio in Italia - afferma Onufrio - "abbiamo visto una crescita delle rinnovabili anche abbastanza significativa. Avevamo una certa quota tradizionale di rinnovabili idroelettrico, geotermico, e a questo si sono aggiuntieolico, solare, biomasse. Questi incrementi hanno danneggiato alcuni settori, in particolare quello del gas. La discussione oggi sul piano energetico è esattamente questa: qual è la quota che le rinnovabili devono avere, tenendo conto che bisognerà intervenire non solo nel settore elettrico, ma in tutti i settori? Il settore elettrico è il più evidente perché è quello in cui è più facile decarbonizzare. Ci sono altri settori, come quello dei trasporti o alcuni settori industriali, in cui la decarbonizzazione è oggettivamente più difficile. Quindi, se l’obiettivo è azzerare le emissioni da qui a 20-30 anni, è chiaro che bisogna correre nei settori in cui è più facile perché per gli altri ci vuole più tempo.

Le fonti rinnovabili sono già competitive. Abbiamo avuto delle fonti incentivate e oggi nella maggior parte dei Paesi il solare e l’eolico costano meno del gas e del carbone. E’ chiaro che si tratta di un mercato regolato, si tratta di un mercato particolare perché queste fonti vanno poi scaricate in una rete elettrica e quindi il fatto che queste fonti siano intermittenti o fluttuanti richiede degli aggiustamenti di tipo organizzativo e c’è una certa resistenza da parte dei vecchi settori ad uscire. In Italia l'elemento positivo è che è stato deciso di eliminare il carbone da qui al 2025. Siamo però in ritardo su tutto il resto. Abbiamo bloccato le rinnovabili negli ultimi anni. Mentre nel 2011 abbiamo messo 11 mila megawatt in un anno, negli anni successivi la quota è scesa drasticamente intorno ai mille e poco più megawatt all’anno. Invece dobbiamo tener conto che la Germania prevede di installare 100 mila megawatt di solare e la Germania ha un terzo in meno di noi di sole, come irraggiamento. Quindi la sfida deve essere rilanciata e di molto, il piano energia e clima non è sufficiente. Abbiamo una questione legata agli accumuli, sia i pompaggi tradizionali idroelettrici, sia le batterie e poi la questione legata ai trasporti. L’auto elettrica non è la soluzione a tutti i mali, ma senza un’elettrificazione significativa dei trasporti non avremo mai un sistema dei trasporti sostenibile. Quindi siamo di fronte alla necessità di una grande trasformazione che contiene però dei conflitti. Esemplifico un tipo di conflitto: le aziende che producono elettricità, possono produrla anche con le fonti rinnovabili e abbiamo in Italia anche molte aziende importanti che lo fanno a livello globale e sono diventate leader. Se invece un’azienda ha come core business quello dell’estrazione di gas, petrolio o carbone fa un’attività che deve essere progressivamente chiusa perché è quella che genera il cambiamento climatico. Per queste aziende è molto più difficile perché devono cambiare mestiere".

Le tecnologie e il ruolo dell'Italia

Nonostante le difficoltà, decarbonizzare presenta dei vantaggi perché - argomenta il direttore di Greepeace Italia - "si passa da un sistema basato su fonti come quelle fossili che, al di là dell’impatto che hanno sull’ambiente, sono fonti concentrate, a un sistema basato che prevede l’utilizzo di fonti a bassa intensità come l’eolico e il solare, ma si stanno sviluppando attività anche su come ottenere energia dal movimento delle onde del mare o l’eolico offshore". Una trasformazione che "produrrà maggiore occupazione e nuove filiere tecnologiche. L’abbiamo visto anche in questi anni: le politiche europee, l’interesse industriale di un colosso come la Cina e gli investimenti di Europa, Usa e Cina hanno portato in pochi anni la tecnologia solare da estremamente costosa a una tecnologia che oggi, nelle aste che si fanno in alcuni paesi per attribuire la nuova potenza elettrica da costruire, vincono sempre con costi che in alcune aree del mondo sono un terzo di quello che oggi è il prezzo dell’elettricità all’ingrosso in Italia. Noi paghiamo circa 6 centesimi all’ingrosso l’elettricità, ci sono progetti solari a scala industriale che oggi spuntano anche meno di 2 centesimi per kilowatt/ora. Noi partiamo avendo già alle spalle dei successi tecnologici. Questi successi tecnologici vanno organizzati e vanno fatti su larga scala perché noi dovremmo arrivare anche a produrre carburanti di origine solare, utilizzando l’energia solare nelle aree in cui questo sarà più possibile, abbiamo una grande speranza nei confronti delll’eolico galleggiante che viene oggi sperimentato in Scozia e in Portogallo, quindi non pali eolici che sono vicino alla costa perché devono stare dove il fondale è basso ma piattaforme galleggianti che ospitano impianti eolici. Questo ampierebbe enormemente la disponibilità di energia pulita nel mondo. E’ sbagliato pensare che l’Italia, siccome è un paese piccolo, non possa avere un ruolo chiave. I paesi industrializzati, e l’Italia è un paese manifatturiero e vuole rimanerlo, se diventa leader in questo ambito ed è capace di dire la sua su queste tecnologie non solo fa del bene a se come paese, ma mostra anche la strada agli altri e apre strade di cooperazione. Qual è il problema? E’ che c’è un pezzo della nostra industria che è fortemente legata ai combustibili fossili e obiettivamente ha difficoltà oggettive: sarebbe ingeneroso pensare che sia solo una questione di volonta, ma è necessario che anche questi pezzi di industria comincino a ragionare in maniera massivo verso le rinnovabili. Lo stanno facendo in modo marginale, questo non va bene, ci aspettiamo nel giro di pochi mesi e di pochi anni di vedere tutta l’industria italiana che procede in maniera coerente verso l’obiettivo.

Il ruolo dei movimenti di protesta 

Sui movimenti di protesta che coinvolgono migliaia di giovani in tutto il mondo Onufrio non ha dubbi: "sono una novità molto positiva per me perché fanno visualizzare che c’è un’intera generazione il cui futuro effettivamente è a rischio. Siamo di fronte a una sfida globale che richiederebbe investimenti globali. Noi non possiamo pensare che il cambiamento climatico sia come risolvere una qualsiasi questione ambientale settoriale. E’ una sfida che coinvolge tutti i settori e ci deve costringere a uno sforzo straordinario. Noi abbiamo bisogno di cambiare sicuramente gli stili di vita, ma non dobbiamo pensare di scaricare la responsabilità del cambiamento solo sul comportamento individuale. Abbiamo di fronte una questione di sfida industriale globale. Il clima internazionale non aiuta. Ricordiamo che l’accordo di Parigi è stato fatto grazie anche alla collaborazione tra Stati Uniti e Cina. L’amministrazione Obama fu lungimirante nel far vedere ai partner - a un paese grande come la Cina, ma di conseguenza a tutti gli altri - la possibilità di investimenti e di sviluppare nuova tecnologia e nuovi settori".

Noi abbiamo bisogno di cambiare sicuramente gli stili di vita, ma non dobbiamo pensare di scaricare la responsabilità del cambiamento solo sul comportamento individuale Giuseppe Onufrio, direttore esecutivo di Greenpeace Italia

Ma, in definitiva, usciremo con qualcosa di positivo dalla Cop 25? 

"Io credo di sì - conclude Giuseppe Onufrio - credo che le regole alla fine si scriveranno, anche perché sono regole di contabilità che devono favorire la cooperazione internazionale. Credo che gli interessi a chiudere bene siano prevalenti rispetto a chi vuole sabotare, ammesso che questa parola sia giusta. Certamente c’è qualcuno che cerca di fare il furbo, ma penso che gli interessi ad avere regole chiare ci siano da entrambe le parti, sia da parte di chi vuole ricevere progetti di cooperazione sia da parte di chi li vuole fare perché ha un interesse anche industriale a espandersi. Il vero punto è capire se a partire dal 2020 verranno fuori impegni all’altezza delle aspettative e la Cop 26 sarà il momento della verifica dei compiti a casa che dovremo fare a partire da gennaio. Greepeace chiede un abbattimento delle emissioni del 65% entro il 2030 perché siamo coscienti che, siccome c’è una parte che sarà più difficile, è meglio fare in fretta tutta quella parte che oggi sappiamo che si può fare, perché dopo ci saranno settori nei quali sarà più arduo e costoso riuscire a decarbonizzare. Dopodichè le parole di Guterres sono azzeccate perché o una massa critica di paesi fa l’accordo e fa anche una massa critica di investimenti, oppure bisogna prepararsi al peggio. Però io credo che bisogna dare un messaggio positivo: ce la possiamo fare, però bisogna marciare all’unisono. Bisogna dare chiare indicazioni di speranza. In questi ultimi dieci anni in cui gli investimenti nelle fonti rinnovabili sono cresciuti abbiamo visto degli sviluppi che hanno sorpreso anche noi, a livello della risposta dei mercati. Noi pensiamo che siano fondamentali gli investimenti in tecnologia, ma è necessario anche puntare sull’innovazione politica, sociale e istituzionale. Possiamo farcela solo se saremo in grado, a livello internazionale e anche a livello di singoli Paesi, di essere così bravi. Penso che dovremo fare di necessità virtù. Dobbiamo essere bravissimi, come l’umanità in altre occasioni probabilmente ha dimostrato, anche se questa sfida in questi termini è ua novità assoluta per l’umanità intera".

 

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012