SOCIETÀ

COP27: perché vale la pena seguirla fino alla fine

Sono ore frenetiche, di negoziazione intensa, quelle che stanno vivendo i delegati a Sharm el-Sheikh. La COP27, l’annuale conferenza della parti sul clima organizzata dalle Nazioni Unite e presieduta quest’anno dall’Egitto, che doveva chiudere i lavori ieri, venerdì 18, sta proseguendo e dunque presumibilmente chiuderà nel corso del weekend. I padiglioni rimangono aperti, così come tutti i servizi a supporto, dalla ristorazione all’area dei media. Le delegazioni lavorano giorno e notte, a volte anche in condizioni di grande fatica, senza avere il tempo di mangiare o di dormire. Circolano bozze, ci sono dialoghi bilaterali, multilaterali, proposte. Ma per ora, ufficialmente, l’accordo ancora non c’è.

Il bollettino quotidiano dell’Italian Climate Network, consultabile sia sul sito che via newsletter, fa il punto sulle questioni centrali che stanno alla base degli accordi da firmare e che ancora non sono risolti all’interno delle bozze che stanno circolando. Non c’è dubbio che un cosiddetto game changer sia stata la decisione dell’Unione Europea, portata avanti da Frans Timmermans, vice presidente della commissione europea e commissario per le politiche di azione sul clima, che ha impegnato l’Europa a sostenere la richiesta pressante e compatta del blocco dei paesi a basso e medio reddito, i G77, capitanati dalla Cina, a istituire un fondo loss&damage. In altre parole, l’Unione Europea accetta l’idea che si lavori alla costituzione di questo fondo per compensare i danni già provocati dalla crisi climatica a quei paesi che ne stanno pagando di più le spese a fronte del fatto che hanno contribuito in misura quasi irrisoria al problema. Ma lo fa a una condizione, e cioè che vengano mantenute e seguite le indicazioni dell’IPCC sul picco delle emissioni globali entro il 2025 per rimanere entro +1,5°C, e uscita graduale da tutti i combustibili fossili. La proposta europea, sostiene l’Italian Climate Network in un articolo del suo policy adviser, Jacopo Bencini, finisce con il mettere la Cina in una posizione non proprio comoda e senz’altro con il ‘stanarla’ rispetto all’ambigua situazione in cui la Cina è contemporaneamente a capo della delegazione dei paesi in via di sviluppo, il G77 che in realtà comprende molti più paesi a basso e medio reddito, e contemporaneamente è oggi il maggior emettitore e senza dubbio uno dei grandi protagonisti dello scacchiere internazionale. 

Puoi seguire tutti i nostri articoli sulla crisi climatica e anche sugli obiettivi delle negoziazioni nella nostra serie Il clima che vogliamo.

Cosa c'è sul tavolo delle negoziazioni

Il fondo perdite e danni è senza dubbio, se sarà confermata la sua inclusione nell’accordo definitivo, una delle più importanti conquiste di questa COP27, mentre per altri importanti aspetti i passi avanti sono meno significativi o non ci sono proprio. Un altro tema centrale è il fatto che venga confermato l’obiettivo di mantenere la crescita della temperatura a 1,5°C rispetto ai periodi pre-industriali, dopo che nei giorni passati si era paventata l’idea di accettare una crescita attorno ai 2 gradi, che sappiamo essere ben meno salutare.

Non si riesce invece, ad ora, a mettersi d’accordo su una uscita decisa dalle fonti fossili. E pochissimi progressi ci sono sul piano dell’aggiornamento degli NDC, gli obiettivi di abbattimento delle emissioni che ogni paese doveva stabilire dopo la COP26 e che avrebbero dovuto essere aggiornati e rafforzati a Sharm el-Sheickh. Si è rinunciato anche a inserire un paragrafo sui diritti umani e ambientali, che era stato inserito nei giorni scorsi nella bozza che circolava. 

Eppure, non per voler essere ottimiste a tutti i costi, questa COP27 ha già segnato alcuni risultati importanti e rilevanti. E ha fatto emergere un cambio di prospettiva. Perché è indiscutibile che, addetti ai lavori a parte, nel discorso pubblico questa COP è iniziata molto sottotono, in un momento storico particolarmente difficile, dove la crisi economica globale, l’inflazione e la crisi energetica legata anche alla guerra in Ucraina rendono difficile vedere uno sforzo congiunto da parte dei paesi del mondo per contrastare con efficacia la crisi climatica. Ma forse, ripetiamo, questa COP sarà invece comunque ricordata per aver segnato alcune svolte significative nel percorso di implementazione delle decisioni prese nelle COP passate. 

Perché la COP27 è comunque significativa

A Sharm el-Sheikh siamo andate anche noi, per qualche giorno della prima settimana. Erano appena andati via i capi di stato e si stavano svolgendo le giornate tematiche dedicate ai focus della conferenza: decarbonizzazione, adattamento, agricoltura, e via dicendo. Si notava già qualcosa che poi è emerso nel corso di questa seconda settimana, ossia il ruolo molto più determinato e attivo di protagonisti cui noi, dalla nostra prospettiva europea molto spesso autocentrata, sembriamo sempre accorgerci poco. 

I paesi del Sud del mondo, il cosiddetto Global South, sono arrivati a questa COP27 e l’hanno poi animata con una serie di proposte e con una visione molto più compatta, determinata e poco disposta a stare in un angolo rispetto al passato. Rispetto ad altri contesti negoziali, non c’è dubbio che la COP sia un territorio più paritario di discussione dove le proposte che arrivano anche da paesi che pesano meno in termini economici e politici a livello globale diventano invece centrali nella negoziazione climatica. Per esempio, grande protagonista a Sharm el-Sheikh è Sandra Mason, la presidente di Barbados, che si è fatta interprete proprio delle esigenze e posizioni molto determinate dei paesi per i quali la crisi climatica non è una minaccia futura ma un problema già molto presente, già molto concreto per il quale questi paesi richiedono oggi, subito, una serie di misure di mitigazione e adattamento e riparazione. 

Un altro aspetto molto importante è la voce, anche quella piuttosto compatta, delle popolazioni indigene che sono ormai considerate, sempre all’interno dei dialoghi e degli spazi quasi protetti e al tempo stesso ultra selezionati di questa COP27, protagoniste necessarie e di grandissimo rilievo per il ruolo attivo nella protezione degli ambienti in cui vivono.

E infine, non era possibile girare per i padiglioni della COP27, senza notare la presenza molto vivace e ricca di entusiasmo dei movimenti di giovani, delle associazioni e network di ragazze e ragazzi che hanno animato molti eventi portando iniziative non solo dimostrative ma anche educative, imprenditoriali, riparative che si stanno sviluppando in diversi paesi, spesso proprio in quegli stessi paesi del Sud, come molti paesi africani, dove è evidente che la dimensione della crisi climatica si salda a questioni di giustizia ambientale, di diritti umani, di accesso a migliori condizioni di vita e di speranze per il proprio futuro. Si tratta di movimenti che giustamente non solo reclamano attenzione ma che, dopo aver dato la sveglia nel corso degli ultimi anni alle generazioni precedenti troppo lente e troppo inattive, hanno anche iniziato a mettere in campo strategie e proposte per promuovere uno sviluppo che sia coerente con le azioni di contrasto alla crisi climatica. 

È qui, in queste molteplici iniziative e proposte, che ha senso guardare per mantenere alto il livello di impegno e di interesse anche verso un processo negoziale così complesso, farraginoso, a volte senza dubbio deludente. Perché la COP27 forse è quella in cui più evidente e chiaro appare il bisogno di guardare alla questione della crisi climatica non solo, e questo lo abbiamo chiaro da un pezzo, come a una questione ambientale e scientifica. Non solo, e anche questo lo abbiamo chiaro da un pezzo, come a una questione tecnologica. La crisi climatica è il fattore chiave che mette in crisi un intero sistema di sviluppo. E quella che è richiesta, prima ancora che una transizione energetica o ecologica, è una transizione culturale piena. Una transizione che rimetta al centro del percorso di sviluppo una visione non predatoria dell’ambiente e al contempo una visione pienamente democratica e rispettosa dei diritti umani delle persone e delle popolazioni che vivono su tutto il pianeta. È questa la vera transizione che dobbiamo promuovere e portare avanti, che riconosce a tutte le persone del mondo il diritto di vivere e crescere in un ambiente salubre e all’interno di contesti dove i propri diritti siano rispettati pienamente. 

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