SOCIETÀ

Covid-19: quali impatti su smart working, banche e imprese minori?

Si affrontano nel seguito due effetti innescati dalla pandemia da Covid-19: 1) la diffusione dello smart-working e i fenomeni a questo collegati per la vita nelle città; 2) l’impatto della crisi economica sul tessuto di piccole e medie imprese, vitale per l’economia delle città, e sulle banche che le sovvengono finanziariamente.

Un importante effetto della pandemia è stato l’aumento del lavoro delocalizzato, svolto cioè da casa invece che nei luoghi tradizionali, tipicamente gli uffici. Prima del Covid si richiedeva che i lavoratori fossero vicini tra loro; lo smart working risultava adottato in molte aziende, ma poco diffuso. Il modello prevalente era quello di persone che si spostavano in auto o con mezzi pubblici per incontrarsi in un ufficio centrale. Questo sistema ha sempre avuto evidenti carenze, alcune delle quali sono peggiorate nel tempo. La maggior parte delle persone odia le seccature e le spese del pendolarismo che consuma, ad esempio, più di quattro ore a settimana per il lavoratore americano medio. Alcuni non amano il rumore e la formalità degli uffici, subiscono discriminazioni al loro interno. Chi lavora in ufficio trova più difficile prendersi cura dei propri figli: un problema crescente poiché più famiglie hanno due genitori che lavorano

Prima della pandemia solo il 3% degli americani lavorava regolarmente da casa

Covid-19 ha ribaltato tutto questo. Prima della pandemia solo il 3% degli americani lavorava regolarmente da casa; poi un numero enorme ha sperimentato questa nuova opportunità. Insieme, Microsoft Teams, Zoom, Google Meet e Cisco Webex – software che supportano il lavoro delocalizzato – hanno ora oltre 300 milioni di utenti. Le imprese hanno investito per rendere possibile un ampio ricorso allo smart working, mediante la diffusione di supporti elettronici e l’adozione di accorgimenti organizzativi utili a rendere fluido questo innovativo modo di lavorare. Molti ostacoli burocratici al lavoro a distanza sono stati eliminati. I tribunali civili, i notai operano a distanza per larga parte della loro attività. Diverse banche hanno eliminato la necessità per i nuovi clienti di entrare in una filiale per confermare la propria identità e aprire un conto.

Gli esiti emersi da questo poderoso shock sul mercato del lavoro sembrano mettere in evidenza che, in effetti, molto lavoro può essere fatto a casa; e per di più, molte persone sembrano preferire farlo lì. Questo non significa, di per sé, “la fine dell'ufficio” e che tutti svolgeranno in futuro il lavoro da casa. Ma importanti cambiamenti sono stati indotti dalla crisi e dispiegheranno i loro effetti negli anni a venire. 

Con riferimento al nostro Paese, recenti dati messi a disposizione dalla Banca d’Italia evidenziano che le imprese che utilizzano il lavoro da remoto sono aumentate dal 28,7% del 2019 all'82,3% del 2020. L’utilizzo di tale strumento è aumentato soprattutto tra le imprese più dinamiche e innovative, che investono in tecnologie avanzate, con retribuzioni medie più alte e con manager più giovani. Nella prima metà del 2020 oltre il 14% dei lavoratori del settore privato non agricolo ha lavorato da remoto; nel 2019 era meno dell'1,5%. L'incremento ha riguardato soprattutto donne, lavoratori di grandi imprese e specifici settori a mansioni più "telelavorabili" (in particolare informazione e comunicazione, attività finanziarie e assicurative). In media i dipendenti in smart working hanno lavorato più ore (6%) e hanno fatto meno ricorso alla Cassa Integrazione Guadagni rispetto a quelli che non hanno usufruito del lavoro da remoto. La forte domanda di smart working da parte delle donne evidenzia il potenziale di questo strumento come mezzo di conciliazione tra occupazione e cure familiari e quindi di facilitazione della partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Nelle amministrazioni pubbliche italiane la quota di lavoratori che ha operato da casa almeno una volta a settimana è salita dal 2,4% del 2019 al 33% del secondo trimestre 2020. Tra gli enti locali, circa il 95% ha adottato misure di smart working. L'utilizzo di tali misure nella Pubblica Amministrazione durante la pandemia è stato comunque inferiore al potenziale nel suo complesso e ha riguardato anche mansioni operative con conseguenze sulla produttività definite “incerte” dai ricercatori della Banca d’Italia

Sembra che lavorare da casa renda le persone più felici. Approfondimenti scientifici dimostravano, già prima della pandemia, l’esistenza di un consistente numero di lavoratori disponibili ad accettare un taglio del proprio stipendio dell’8% pur di lavorare da casa, evitando il pendolarismo. Uno studio condotto da ricercatori della Stanford University nel 2015 aveva esaminato i lavoratori cinesi dei call center. Era emerso che coloro che lavoravano da casa erano più produttivi: un terzo dell'aumento veniva ricondotto a un ambiente più tranquillo, il resto a persone che lavoravano più ore. I giorni di malattia erano risultati in netta flessione. 

Con l'alleggerirsi del lockdown avvenuto prima dello scoppio della seconda fase della pandemia, le persone avevano ricominciato a girare: la spesa al dettaglio era balzata in tutto il mondo ricco, le prenotazioni di ristoranti erano aumentate sensibilmente. Eppure molti hanno continuato a evitare l'ufficio, anche se le scuole avevano riaperto. 

Sulla base di dati stimati da Morgan Stanley ad agosto 2020, solo il 50% delle persone in 5 grandi paesi europei (Germania, Gran Bretagna, Francia, Italia e Spagna) trascorrevano tutti i propri giorni lavorativi in ufficio: un quarto di essi già lavorava full-time da casa. Ciò può essere dovuto al timore del contagio da Covid-19 e agli inconvenienti connessi con un funzionamento a capacità ancora ridotta degli uffici. Anche se i luoghi di lavoro sono più sicuri, può rimanere problematico arrivarci: l’uso dei mezzi pubblici non è ritenuto sufficientemente affidabile sotto il profilo sanitario.

L’impatto di queste tendenze sulla vita delle città è di particolare rilievo per quanto riguarda i trasporti, gli esercizi commerciali che appoggiavano la loro redditività su una moltitudine di persone presenti quotidianamente nei posti di lavoro, disponibili a consumare e a spendere in quei luoghi. Ora le complesse regole di pianificazione urbana necessitano di una revisione sistematica per consentire la riqualificazione di edifici e quartieri per nuovi usi, inclusi appartamenti e ricreazione. 

Non tutte le indicazioni vanno comunque nella direzione di ritenere così positivi gli effetti del lavoro da casa. La soddisfazione dei dipendenti varia a seconda se si ha o meno a disposizione spazio adeguato da dedicare all’attività d’ufficio, a una propria scrivania. Spesso la giornata lavorativa media durante il lockdown è risultata superiore rispetto al lavoro in ufficio. Molti lavoratori sono preoccupati di perdere il posto a causa dell'epidemia; si interrogano sul futuro di promozioni, paga, sicurezza del lavoro. Inoltre, non è certo se i benefici dello smart working possano durare per un periodo di tempo prolungato. Non pochi sono i dipendenti che esprimono quasi una disperazione volendo ritornare quanto prima a lavorare in ufficio: questo perché magari a casa sono soli e non ricavano benefici dalla loro permanenza fuori dell’ufficio, non avendo famiglie e figli da accudire. 

Tema discusso è se lavorare insieme, in ufficio, aumenti la produttività. I ricercatori che hanno studiato la prossimità fisica non sono d'accordo sulla questione; non è chiaro se un'interazione faccia a faccia faciliti o inibisca la collaborazione. L'argomento si concentra in gran parte sulla misura in cui l'insieme delle persone sotto lo stesso tetto promuova comportamenti favorevoli a nuove idee o se ciò solleciti piuttosto la diffusione di chiacchiere oziose.

Sembra si possa sostenere che la vicinanza aiuti le persone a trovare nuove idee: alcune delle migliori decisioni e intuizioni provengono dalle discussioni in corridoio e a mensa, dall'incontro con nuove persone e dalle riunioni estemporanee del team. Ma è anche vero che le persone non hanno necessariamente bisogno di essere in un ufficio per farlo.

La pandemia ha messo a dura prova il ruolo dei capi nelle aziende, sollecitandoli a distribuire in modo più trasparente e diffuso le informazioni in loro possesso, così da coinvolgere tutti coloro che da casa attendono istruzioni su cosa fare giorno per giorno. Ai capi sono stati richiesti sforzi maggiori di coordinamento delle risorse loro affidate, al fine di farle risultare produttive e orientate al raggiungimento di risultati comuni e condivisi

Quanto di questo cambiamento rimarrà quando arriverà un vaccino? Dai paesi in cui il virus è sotto controllo provengono indicazioni di un "ufficio facoltativo", con postazioni mobili, dove le persone vanno a lavorare, ma meno frequentemente. Le aziende dovranno adattarsi a questo schema di presenze sporadiche in cui l'ufficio è un hub, non una seconda casa. Assumeranno rilievo interazioni più mirate del personale, con gruppi che si riuniscono in momenti specifici per aggiornare le relazioni e scambiare informazioni. 

Si stanno anche diffondendo "uffici virtuali", che rendono più agevole la comunicazione anche asincrona tra colleghi, piuttosto che ricorrere all’ormai routinaria pianificazione di una videochiamata. Utilizzando nuove metodiche, il lavoratore può registrare il suo schermo, la sua voce e il suo viso e condividerlo istantaneamente con più colleghi. Questo può risultare più utile di una videochiamata convenzionale, in quanto il video può essere accelerato o riavvolto.

Il lavoro più frequente da casa richiederà l'uso di nuovo hardware e il graduale superamento di altri più tradizionali, quali ad esempio i grandi data-centres. Andranno effettuati investimenti per dotare i lavoratori di tecnologia che consenta loro di replicare l'esperienza d’essere nello stesso spazio fisico con altri (telecamere e microfoni di qualità superiore, per esempio). 

Per i governi la tentazione potrebbe essere quella di riportare indietro l'orologio per limitare i danni economici, dal crollo delle consumazioni nei bar, caffè e punti di ristoro del centro città al deficit di bilancio addizionale che il sistema metropolitano dei trasporti si vede costretto ad affrontare. 

A seguito della diffusione dello smart working, sarà necessario modernizzare un vasto corpus di leggi sul lavoro. La gig economy ha già dimostrato di non essere aggiornata. Ora si profilano nuove domande spinose sui diritti e le responsabilità dei lavoratori: le aziende possono monitorare i lavoratori a distanza per valutare la loro produttività? Chi è responsabile se i dipendenti si feriscono a casa? La sensazione che i colletti bianchi stiano ottenendo vantaggi potrà creare risentimento nel resto della forza lavoro.

Importanti effetti dell’accresciuta diffusione dello smart working si stanno palesando sul mercato immobiliare, per quanto riguarda sia l’utilizzo dei locali destinati a uffici, sia la ricerca di spazio in più all’interno delle abitazioni, possibilmente per un ufficio a casa dedicato. Gli investitori si aspettano una riduzione di almeno il 10% dello stock di spazi per uffici nelle grandi città. A fine agosto, Pinterest, società di social media, ha pagato 90 milioni di dollari per porre fine a un nuovo obbligo di locazione per gli uffici vicino alla sua sede a San Francisco per creare una "forza lavoro più distribuita". Il mercato globale degli immobili commerciali (che cuba qualcosa come 30 trilioni di dollari) è perseguitato dai timori di un crollo più profondo.

È pur vero che, anche in questo ambito, le indicazioni non appaiono sempre univoche: altri soggetti sembrano infatti muoversi in diversa direzione. Facebook ha firmato un nuovo contratto di locazione per un grande ufficio a Manhattan. A metà settembre è stata diffusa la notizia che la Banca d’Italia ha finalizzato un accordo con una società immobiliare controllata da Bain Capital Credit per la locazione, della durata di 6 anni con opzione per un ulteriore sessennio, di un immobile cielo-terra di pregio a Roma nel Rione Trevi per una superficie di circa 5.000 mq, al fine di ospitare gli uffici del Dipartimento Tutela della Clientela ed Educazione Finanziaria, recentemente istituito. Risulterebbe che Bloomberg offra un compenso fino a 55 dollari al giorno per far tornare i suoi lavoratori al suo edificio a Londra. 

Durante la recessione globale di dieci anni fa, i prezzi reali delle case sono diminuiti in media del 10%, mandando in fumo migliaia di miliardi di dollari della più grande asset class del mondo. Anche se il mercato immobiliare non è stato l'innesco di problemi economici questa volta, gli investitori e i proprietari di case si sono preparati al peggio, consapevoli che il Covid-19 avrebbe spinto l'economia mondiale nella sua più profonda recessione dopo la depressione degli anni '30. Questo pessimismo al momento sembra eccessivo. I prezzi delle case sono aumentati nella maggior parte dei paesi a reddito medio e alto nel secondo trimestre 2020. Nel mese di agosto in Germania erano più alti dell'11% rispetto all'anno precedente; la rapida crescita in Corea del Sud e in alcune parti della Cina ha spinto le autorità a inasprire le restrizioni nei riguardi degli acquirenti. Negli USA il tasso di crescita del prezzo mediano delle abitazioni durante il secondo trimestre 2020 (quindi, dopo il significativo allentamento monetario messo in atto dalla FED) ha accelerato più rapidamente di quanto non avvenuto prima della grande crisi finanziaria globale del 2007-2009. Tra i fattori che spiegano questa tendenza rilevano la politica monetaria e fiscale particolarmente espansive e le mutate preferenze degli acquirenti, legate in larga parte alla diffusione dello smart working.

Il Covid-19 è iniziato come una malattia urbana. È apparso a Wuhan, in Cina, e si è diffuso rapidamente nelle grandi città internazionali. Ma il virus non è rimasto urbano a lungo; i suoi effetti si sono estesi ben oltre i nuclei densamente popolati; stanno interessando anche i sobborghi delle grandi città, gli agglomerati dove vivono i pendolari. Essendo fortemente calato il pendolarismo a motivo del lockdown e del maggior ricorso allo smart working, ne stanno derivando impatti (positivi) su tale articolata cintura esterna alle grandi città. I sobborghi, le cittadine periferiche si stanno rianimando al di là e oltre i week-end, giorni in cui i pendolari lì vivevano, dedicandosi ad attività e a impegni tipici del fine settimana.

Per le attività commerciali di alto livello nelle grandi città, la perdita di pendolari si è rivelata un disastro che ha aggravato i danni derivanti dal crollo del turismo straniero. A Londra, prima del Covid-19 più di 900.000 persone (un quinto dei lavoratori della capitale) facevano i pendolari. Molti di loro erano ricchi. Ma la perdita di affari nelle grandi città si sta dimostrando un vantaggio per le vicine città di pendolari. Questi, che erano soliti uscire in giro per il centro delle grandi metropoli per acquisti anche di un certo valore durante le pause-pranzo, ora fanno shopping più vicino a casa. È difficile sapere quale sia l’effettivo stato di salute dei negozi di questi sobborghi delle grandi città: come i negozi di tutto il mondo, hanno ricevuto sovvenzioni e prestiti statali. Quel che è certo è che pochi hanno chiuso e alcuni nuovi hanno addirittura aperto. I sobborghi delle grandi città stanno diventando un posto più desiderabile in cui vivere. Hanno in genere verde in abbondanza, disponibilità di case con ampi spazi che possono essere convertiti in uffici, particolarmente appetibili se si lavora da casa. 

E veniamo ora a un altro aspetto di rilievo legato alla crisi economica innescata dal Coronavirus: gli impatti su una molteplicità di imprese, di piccola e media dimensione, che rischiano di entrare in crisi a seguito della riduzione dei fatturati determinata dalle diverse abitudini di vita di quanti vivono nelle città. Con la pandemia molte attività commerciali sono entrate in sofferenza: spostamenti ridotti, calo dei traffici, diminuzione delle spese. Sono tante le imprese che faticano a sopravvivere. Hanno avuto bisogno di rilevante sostegno pubblico. 

Il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ha osservato in un recente intervento che “La pandemia Covid-19 si presenta come uno shock improvviso che può cancellare anni di progressi in termini di riduzione della povertà e aggravare le disuguaglianze e l'esclusione. ….In un contesto di aumento dei debiti delle imprese, di forte incertezza economica e rischi crescenti, la sfida sarà quella di preservare la capacità del sistema finanziario di sostenere l'economia reale senza comprometterne la stabilità…. La ripresa che ha preso piede nel terzo trimestre dell'anno, sebbene vigorosa, è parziale e fragile…. Le autorità fiscali e monetarie dovrebbero continuare a fornire sostegno, prontamente, e adattare la loro azione alla situazione in evoluzione. Ritirare il sostegno troppo presto o un mancato intervento tempestivo potrebbero frammentare la ripresa ed esacerbare il disagio sociale".

Per le imprese italiane, la crisi indotta dalla pandemia è stata inizialmente fronteggiata con incisivi interventi di sostegno pubblico sul fronte del fabbisogno di liquidità, dopo un decollo laborioso delle erogazioni da parte delle banche, a motivo dell’eccezionale mole di richieste oltre che delle numerose innovazioni introdotte negli schemi di garanzia. La BCE ha potenziato enormemente il suo volume di fuoco; non ha mancato di far affluire il proprio sostegno, migliorando le condizioni applicate alle operazioni di rifinanziamento.

Nel prossimo futuro, con l’auspicabile consolidarsi della crescita, le banche si troveranno a dover fronteggiare nuove domande di finanziamenti non più assistite dalle garanzie pubbliche. Si prospetta un aumento delle sofferenze e delle inadempienze probabili: inevitabilmente, come in ogni crisi, la fase recessiva che stiamo attraversando genererà un deterioramento della qualità degli attivi delle aziende di credito.

Non possono che riemergere preoccupazioni di fronte a questo ineludibile andamento dei bilanci bancari. L’attenzione quasi spasmodica che diversi Paesi europei hanno espresso negli ultimi anni di fronte al considerevole incremento dei non performing loans delle banche italiane tornerà a farsi sentire. Si rischiano irrigidimenti e scontri tra paesi con differenti vedute sulla stabilità dei sistemi bancari. Un déjà-vu che può tornare a compromettere la serenità del confronto in ambito europeo, già faticosamente messo alla prova con l’intesa sul Next Generation EU Fund, strumento per la ripresa approvato dal Consiglio Europeo di luglio 2020.

Sullo stato di salute delle banche pesano condizionamenti di carattere strutturale e cambiamenti epocali in atto (digitalizzazione, concorrenza dello shadow banking, eccesso di sportelli). Pesa anche una regolamentazione eccessiva, che è stata concepita nel tempo in modo additivo e stratificato; si sono andati via via ad aggiungere, infatti, corposi “pezzi” di regole che hanno determinato una costruzione della regolamentazione troppo sofisticata, dove accanto a un uso spinto di modelli interni basati su approcci talora soggettivi ai rischi, coesistono regole automatiche che, per rendere omogenea la disciplina tra diverse giurisdizioni, spesso ignorano e massificano le specificità tipiche di paesi e di banche, trascurando per queste ultime l’applicazione dell’indispensabile principio di proporzionalità. 

In uno scritto del 2012 (The dog and the frisbee), Andrew G. Haldane, all’epoca Executive Director della Bank of England, criticando l’eccessiva complessità della regolamentazione originata dal Comitato di Basilea, così concludeva le sue argomentazioni. “La finanza moderna è complessa, forse troppo complessa. La regolamentazione della finanza moderna è complessa, quasi certamente troppo complessa. Questa configurazione è un problema. Come non si combatte il fuoco con il fuoco, non si combatte la complessità con la complessità. Poiché la complessità genera incertezza, non rischio, richiede una risposta normativa fondata sulla semplicità, non sulla complessità. Una consegna che richiederebbe un'inversione di tendenza da parte della comunità normativa rispetto al percorso seguito per la maggior parte degli ultimi 50 anni. Se una crisi che si verifica una sola volta nella vita non è in grado di realizzare questo cambiamento, non è chiaro cosa lo farà. Chiedere ai regolatori di oggi di salvarci dalla crisi di domani usando la cassetta degli attrezzi di ieri è chiedere a un border collie di catturare un frisbee applicando prima la Legge di Gravità di Newton”.

Di questa situazione soffrono in particolare le banche italiane, specie quelle di piccola e media dimensione: alcune di esse rischiano di non sopravvivere, anche a motivo del sovrapporsi di tale articolata regolamentazione a uno stato dei bilanci che a motivo della crisi tenderà inevitabilmente a deteriorarsi. 

Ove non si faccia uso di un necessario equilibrio e di un sano pragmatismo, si rischia che l’esageratamente complessa legislazione bancaria europea – che ha previsto una dettagliata applicazione estesa alle banche di ogni dimensione della normativa che il Comitato di Basilea aveva riservato alle sole banche “internazionali” – torni a esaltare la sua rigida impostazione di carattere statistico (es. calendar provisioning), con impatti potenzialmente severi sui patrimoni delle banche, specie se di minore dimensione.

Questo avverrebbe mentre il regime europeo di gestione delle crisi bancarie continua a essere carente nelle procedure utili ad accompagnare, in modo ordinato, l’uscita dal mercato degli intermediari in crisi. La legislazione vigente in materia di risoluzione delle banche (che ha introdotto il cd. bail-in) è stata scritta, purtroppo, sottostimando i rischi sistemici che la sua applicazione può determinare sull’economia di un paese: se non corretta, essa rischia di fare più danni di quelli cui intende porre rimedio. La situazione ora descritta impone, dunque, che si usi cautela, prudenza e saggezza per evitare una meccanica ri-applicazione di norme di vigilanza opportunamente sospese durante il clou della pandemia. Questo per evitare che la crisi “gravissima” che stiamo vivendo si trasferisca dalle imprese al sistema bancario e finanziario.

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