SCIENZA E RICERCA

CSI Australia: alla ricerca delle echidne

Iconica, bizzarra e anche elusiva. Sono forse questi tre gli aggettivi caratteristici dell’echidna dal becco corto: la Tachyglossus aculeatus. Un animale simbolo dell’Australia, tanto strano quanto difficile da incontrare, amante della privacy a tal punto che ancora non si conosce bene la sua distribuzione nel paese. Proprio per questo un team di ricercatori dell’Università di Adelaide, guidato da Tahlia Perry, ha lanciato un progetto di citizen science che sta riscuotendo molto successo. Si chiama Echidna CSI, o meglio Echidna Conservation Science Initiative, e punta a ottenere la prima mappa dettagliata della distribuzione dell’echidna dal becco corto in tutta l’Australia, grazie all’aiuto dei cittadini volontari. Cosa viene chiesto agli australiani? Niente di complicato: se si avvista un’echidna, bisogna scattare una foto e caricarla sull’apposita app del progetto, geolocalizzandosi. Mentre ai più “fortunati” che si imbattono nelle tracce di un’echidna, viene chiesto di fare uno sporco lavoro: raccogliere eventuali feci dell’animale (quelle delle echidne si chiamano scat e sono parecchio caratteristiche) e inviarle al laboratorio del progetto.

Operazioni molto semplici, per le quali comunque vengono fornite istruzioni dettagliate, considerando anche che il progetto EchidnaCSI prende in considerazione solo una delle quattro specie di echidne esistenti: l’echidna dal becco corto, appunto. Quella a minor rischio di estinzione, se si guardano le valutazioni globali. Eppure nonostante la fama che questa echidna condivide con altri mammiferi australiani – come koala, canguri e ornitorinchi – solo due popolazioni sono ben studiate: quella che risiede in Tasmania e quella di Kangaroo Island. Mentre la popolazione della Tasmania è piuttosto abbondante, quella di Kangaroo Island è minacciata dalla distruzione dell’habitat, dalla presenza di gatti e specie aliene, tanto da essere classificata dall’IUCN – l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura – come “in via di estinzione”.

Nel resto dell’immenso continente australiano, però, non si conosce con esattezza lo stato di conservazione dell’echidna dal becco corto, ma si sa con certezza che insistono le stesse minacce presenti a Kangaroo Island. Ed è proprio per capire meglio la distribuzione, lo stato di conservazione e di salute delle diverse popolazioni di questa specie di echidna che tre anni fa è nato Echidna CSI. E “CSI” non è un acronimo casuale, perché proprio dagli scat (gli escrementi) delle echidne gli scienziati possono ottenere informazioni preziose. Da uno scatinfatti si può capire innanzitutto quali specie di formiche e di termiti ha mangiato quell’individuo (ottenendo anche un censimento indiretto di questi insetti); ma si può anche comprendere se quell’individuo è stressato, esaminando per esempio i livelli di cortisolo (l’ormone dello stress). Mentre da ormoni come progesterone e testosterone si può sapere se un’echidna è sessualmente attiva o addirittura incinta.

Anche se talvolta si tratta di raccogliere escrementi, gli australiani hanno risposto all’appello di EchidnaCSI con entusiasmo: in tre anni l’app è stata scaricata più di 9.000 volte e ben 2.816 utenti hanno segnalato 11.000 avvistamenti e inviato 406 campioni di scat provenienti da ogni angolo dell’Australia. Ma perché dei cittadini volontari dovrebbero andare in giro a raccogliere escrementi? È presto detto: per l’echidna gli australiani farebbero questo e altro. Su un campione di 944 intervistati partecipanti al progetto, il 64% ha avuto la fortuna di incontrare qualche echidna nelle sue passeggiate, mentre il restante 36% continuava ad essere impegnato nel progetto nonostante non ne avesse incontrata neanche una in tre anni. Una caparbietà ammirevole, motivata – secondo le risposte fornite nell’intervista – dalla possibilità di partecipare alla ricerca scientifica e alla conservazione della fauna selvatica, e alimentata anche e soprattutto dalla fascinazione per le echidne.

Le echidne restano infatti ancora oggi un rompicapo evolutivo che fa arrovellare anche i biologi della conservazione. Mangiano formiche e termiti, ma non sono dei formichieri. Sono mammiferi, ma depongono le uova e per questo appartengono all’ordine antichissimo dei mammiferi monotremi. Non hanno denti e neanche mammelle, ma solo piccoli orifizi da cui sgorga il latte. In compenso le femmine hanno un marsupio: una tasca cutanea in cui allevano i propri piccoli. E se vogliamo essere pignoli, i maschi hanno un pene a quattro teste, mentre le femmine hanno due uteri e due vagine. Insomma, le echidne sin dalla loro scoperta hanno generato più domande che risposte, e proteggerle ai tempi dell’Antropocene non è semplice. Ma è doveroso.

Le echidne sono infatti tra i mammiferi più antichi del mondo e secondo gli studi più recenti possono ancora rivelarci molto sull’evoluzione della viviparità e della placenta, ma anche del cervello, dei cromosomi sessuali e della termoregolazione. Le echidne si sarebbero evolute circa 115 milioni di anni fa, e oltre alle caratteristiche appena elencate, sono i mammiferi con corteccia frontale più grande in relazione alle dimensioni corporee. Inoltre, mentre il resto dei mammiferi ha solo due cromosomi sessuali, le echidne femmine hanno 10 cromosomi X, mentre i maschi hanno cinque cromosomi X e quattro Y, per un totale di 9 cromosomi sessuali. Rispetto a tutti gli altri mammiferi, poi, questi animali hanno una temperatura corporea media molto più bassa, intorno ai 30°C, che può oscillare di 10°C in un giorno a seconda delle condizioni ambientali. Alle motivazioni biologiche, possiamo aggiungere quelle culturali: le echidne sono animali totem per molte tribù aborigene australiane, sul loro conto fioccano leggende tramandate da secoli, e i loro ritratti campeggiano persino tra le pitture rupestri dell’Arnhem Land nel Territorio del Nord, risalenti a 40.000 anni fa. Senza le echidne, la cultura aborigena e la cultura australiana tutta sarebbe più povera. Se perdiamo le echidne perdiamo anche un frammento delle culture del mondo. E soprattutto perdiamo un pezzo fondamentale della nostra storia evolutiva, che non cavremo più la possibilità di conoscere.

POTREBBE INTERESSARTI

© 2018 Università di Padova
Tutti i diritti riservati P.I. 00742430283 C.F. 80006480281
Registrazione presso il Tribunale di Padova n. 2097/2012 del 18 giugno 2012