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La Turchia è il principale cliente Nato per l'industria bellica italiana

Mercoledì 9 ottobre la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan ha ufficialmente dato il via all’operazione militare contro le forze curde nel nord-est della Siria. L’operazione è stata annunciata dallo stesso presidente turco con un tweet.
 

 


Chiamata #OperationPeaceSpring, la guerra è iniziata con i primi bombardamenti contro la città di Ras Al Ain, posta al confine tra Turchia e Siria, ai quali sembra essere seguita anche l’operazione via terra.
L’obiettivo principale dell’operazione “fonte di pace” (letteralmente spring si può tradurre sia come "primavera" che come "fonte", e ad ottobre sembra più appropriata questa seconda traduzione ndr) sarebbe quello di creare una cosiddetta “zona cuscinetto”, cioè utilizzare il nord-est della Siria per trasferire le migliaia di profughi siriani che negli ultimi anni sono scappati dalla guerra. Questo almeno, è ciò che è stato dichiarato dalla Turchia.



Per farlo però la Turchia ha iniziato ad attaccare i curdi siriani. Ricordiamo che quando si parla di curdi e di Kurdistan si intende una zona di oltre 450 mila chilometri quadrati che coinvolge parti della Turchia, della Siria, dell’Iran e dell’Iraq. Come riportato da Limes “se il Kurdistan fosse unito politicamente potrebbe essere lo Stato più ricco del Medio Oriente, considerate le materie prime di cui dispone, dal petrolio alle risorse idriche”.

Le operazioni militari quindi sono ufficialmente iniziate ed hanno già provocato diversi morti civili. Unanime è arrivata la condanna alle operazioni, anche se per ora si tratta solo di tiepidi moniti. Il più duro è stato Donald Trump, che ha dichiarato che nel caso la Turchia non agisse in modo “umano”, lui sarebbe pronto a “distruggere” la sua economia. Trump che però, di fatto, è anche colui che ha dato il via libera alle operazioni turche, avendo ritirato i soldati statunitensi dalla zona.

Gli Stati Uniti quindi si sono trovati a fare da ago della bilancia in una situazione che li vede alleati alla Turchia da una parte (facendo entrambi parte della Nato) ed alleati con i curdi dall’altra, avendoli armati e coaudiivati nella riconquista dei territori che erano stati controllati dagli jihadisti dell’autoproclamato “Stato islamico” (Is).

Anche la voce dell’Unione Europea per ora è stata decisamente debole, stretta tra richieste di non intervento alla Turchia e minacce da parte di Erdoğan di inviare in Europa 3,6 milioni di rifugiati siriani.

Anche l’Italia infine si ritrova nell’imbarazzante situazione già vista qualche mese fa, quando abbiamo parlato dell’Arabia Saudita (situazione che si è risolta con l’approvazione, nel giugno scorso, della mozione presentata dalla Lega e dal Movimento 5 stelle per sospendere le esportazioni di armi proprio all’Arabia Saudita, in quanto utilizzate anche contro i civili in Yemen).

Come abbiamo già avuto modo di analizzare, in Italia c’è una legge, la 185/90 che, all’articolo 6 parla chiaro: “L'esportazione ed il transito di materiali di armamento sono vietati verso i Paesi in stato di conflitto armato”.
Andando a vedere le autorizzazioni di forniture di armamenti verso i Paesi esteri approvate nel 2018, vediamo come la Turchia sia il primo paese Nato ed il terzo in totale verso cui esportiamo armi.

In particolare nel 2018 sono state concesse verso la Turchia 70 licenze di esportazione definitiva per un controvalore di oltre 362 milioni di euro. Una situazione portata alla luce anche dalla Rete Italiana per il Disarmo che ha ricordato come “la Turchia sia da molti anni uno dei maggiori clienti dell’industria bellica italiana e che le forze armate turche dispongano di diversi elicotteri T129 di fatto una licenza di coproduzione degli elicotteri italiani di AW129 Mangusta di Augusta Westland.

Le autorizzazioni italiane alla Turchia

Tra i materiali autorizzati nel 2018 ci sono stati anche armi o sistemi d’arma di calibro superiore ai 19.7 mm, munizioni, bombe, siluri, razzi, missili e accessori oltre ad apparecchiature per la direzione del tiro, aeromobili e software. Le commesse autorizzate lo scorso anno inoltre sono state superiori a quelle del 2017 e del 2016, con un incremento in tre anni di quasi 230 milioni di euro.

Di fatto la percentuale di esportazioni verso la Turchia, prendendo in considerazione i paesi alleati Nato, è passata dallo 0,91% del 2016 al 7,58% del 2018.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il doppio imbarazzo italiano

Gli Stati Uniti di Donald Trump non sono l’unico paese a ritrovarsi in imbarazzo di fronte a questa nuova, sanguinosa guerra. L’Italia infatti, oltre ad essere alleata alla Turchia nella Nato, si trova nella situazione di sostenitrice, per quanto indiretta, sia degli uni che degli altri. Le modalità e le quantità di “forniture” sono decisamente diverse. Per quanto riguarda le autorizzazioni all’esportazione della Turchia abbiamo già detto, ciò che invece è bene ricordare è anche l’aiuto dato ai curdi.

Era l’anno 2014, al governo c’era Matteo Renzi e l’allora ministra della Difesa Roberta Pinotti aveva dato il via al trasferimento di armi verso il kurdistan iracheno. Si trattava in particolar modo di 100 mitragliatrici 42/59 calibro 7,62 con 100 treppiedi con 250mila munizioni, 100 mitragliatrici M-2 Browning calibro 12.7 con 250mila munizioni, 1.000 razzi per Rpg 7, 1.000 razzi per Rpg 9 e 400mila proiettili calibro 7,62 per mitragliatrici di fabbricazione sovietica. Tutto questo materiale era proveniente da una confisca del 1994 sulla nave Jadran Express, mezzo che aveva tentato di violare il blocco alle forniture belliche in ex Jugoslavia.

Insomma tra le armi partite verso la Turchia e quelle dirette verso il kurdistan iracheno la differenza è tanta, il concetto però è sempre il medesimo: un mercato che vale nel solo 2018 5,246 miliardi di euro di export, fa difficoltà a fermarsi davanti anche al più basilare concetto di diritto umano.

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