SOCIETÀ
Democrazia a rischio in Israele? La riforma di Netanyahu rischia di lacerare il Paese
Le manifestazioni di protesta a Tel Aviv contro Benjamin Netanyahu. Foto: Reuters
Se fosse una vignetta si vedrebbe Benjamin Netanyahu con una forbice in mano, pronto a tagliare, perfino a strappare la bandiera d’Israele pur di ottenere quel che vuole. La sua richiesta di riforma giudiziaria sta creando una spaccatura profonda, e pericolosa come mai, nel tessuto sociale e democratico di Israele. Oltre centomila manifestanti sono scesi in piazza sabato scorso in varie città, da Gerusalemme ad Haifa, 80mila soltanto a Tel Aviv. Perfino il presidente israeliano Isaac Herzog ha alzato la voce e usato termini che non lasciano spazio a fraintendimenti: «Siamo alle prese con un profondo disaccordo che sta lacerando la nostra nazione», ha dichiarato, preoccupato. Ma Netanyahu tira dritto, forte del voto popolare che lo scorso novembre lo ha nuovamente portato alla guida del governo (anche se in compagnia degli ultranazionalisti di estrema destra), nonostante le tante inchieste giudiziarie che da anni lo stanno rincorrendo. Perché questo, al netto di tutti i distinguo, di facciata o meno, è il reale obiettivo di Netanyahu: bloccare i giudici. Asservire la magistratura al potere politico. Pretendere il potere di bloccare politicamente le sentenze della Corte Suprema. I suoi attuali alleati, che mai si sarebbero aspettati di poter arrivare a ricoprire ruoli di governo (a partire da Itamar Ben-Gvir, leader del partito di estrema destra Otzma Yehudit,già condannato per sostegno al terrorismo sionista), lo assecondano entusiasti. Perché anche loro vedono nella Corte Suprema un “nemico”. E perché sanno bene che l’eventuale approvazione di questa “riforma giudiziaria” potrebbe cancellare con un tratto di penna alcune sentenze fondamentali per i diritti del popolo palestinese: a partire da quella che definisce “illegali” le colonie israeliane in Cisgiordania, terra che appartiene alla Palestina. Se il colpo di mano di Netanyahu avrà successo, l’annessione della Cisgiordania sarà di fatto compiuta. Mentre il governo israeliano continua a costruire illegalmente muri di cemento per separare, per dividere (l’ultimo pochi giorni fa, alto 9 metri e lungo 45 chilometri, si estende dal villaggio di Salem alla città di Tulkarm, nel nord della Cisgiordania). Un “fai da te” che continua incessante nonostante i rapporti delle Nazioni Unite, che continuano a chiedere “lo smantellamento dell'occupazione coloniale israeliana”.
Israele sta rischiando seriamente di precipitare nel caos (e la Casa Bianca, in silenzio, tiene gli occhi bene aperti). Ma il governo israeliano, il più “a destra” della storia, entrato formalmente in carica a fine dicembre, non arretra d’un passo, impermeabile alle proteste, alle critiche, agli avvertimenti sui rischi che un simile cammino potrebbe comportare. Netanyahu liquida, con una scrollata di spalle, il peso delle massicce manifestazioni dei giorni scorsi: «Due mesi fa c’è stata una grande manifestazione, la madre di tutte le manifestazioni: milioni di persone sono scese in piazza per votare alle elezioni», ha risposto sprezzante. «E uno dei temi principali su cui hanno votato è stata la riforma del sistema giudiziario». Come dire: io ho vinto, io decido. Come se la democrazia del voto fosse una foglia di fico a coprire una dittatura de facto. La riforma della giustizia, che porta la firma di Yariv Levin, vicepremier e ministro della Giustizia, anche lui del Likud, prevede che la Knesset, il Parlamento israeliano, possa annullare a maggioranza semplice (dunque con 61 voti su 120 complessivi: è stata definita la “clausola di scavalcamento”) qualsiasi decisione della Corte Suprema (e Netanyahu è sostenuto, oggi, da una maggioranza di 64 parlamentari). Corte che invece attualmente può bloccare le nuove leggi emanate dal governo qualora siano ritenute in contrasto con le leggi fondamentali del paese, a partire da quella che tutela la dignità umana e la libertà. E per un Paese che non ha una Costituzione scritta, il potere giudiziario è l’unico organo in grado di “controllare” il governo e salvaguardare i diritti individuali e delle minoranze. La riforma Levin aumenterebbe inoltre il potere del governo di nominare (e di rimuovere) i giudici, compresi quelli che dovranno, o dovrebbero, giudicare Netanyahu. Di fatto, l’operato del primo ministro sarebbe senza più controllo alcuno.
Le manifestazioni di protesta a Tel Aviv. Foto: Reuters
«Superate le linee rosse»
Con buona pace della democrazia che in molti, tra le decine di migliaia di manifestanti che sabato scorso si sono riversati in strada per protestare, hanno invocato a gran voce (tra i cori anche un “Israele non deve diventare come l’Iran”). E con le loro, molte altre voci autorevoli si sono fatte sentire. Come quella di Gali Baharav-Miara, procuratore generale, che senza troppo girarci attorno ha parlato di «democrazia di nome ma non di fatto»: «La riforma presentata dal governo creerà un sistema squilibrato di controlli ed equilibri: il principio della regola della maggioranza spingerà altri valori democratici in un angolo», ha avvisato Baharav-Miara intervenendo a una conferenza legale all’Università di Haifa. «Ma senza supervisione giudiziaria e consulenza legale indipendente, rimarremo solo con il principio della regola della maggioranza». Sulla stessa linea Esther Hayut, presidente della Corte Suprema, che la scorsa settimana, a una conferenza dell’Associazione israeliana di diritto pubblico, si è pubblicamente esposta, scagliandosi con veemenza contro il progetto del governo: «Questo è un attacco sfrenato al sistema giudiziario, come se fosse un nemico che deve essere attaccato e sottomesso. L’applicazione di questo piano minerebbe fatalmente l’indipendenza giudiziaria, offrendo alla Knesset un "assegno in bianco" per approvare qualsiasi legge - anche in violazione dei diritti civili fondamentali - e negando ai tribunali gli strumenti necessari per esercitare un controllo sul potere esecutivo. Toglierebbe alla Corte Suprema la possibilità di respingere leggi che violano i diritti umani, incluso quello alla vita, alla proprietà, alla libertà di movimento e di parola. Insomma, infliggerebbe un colpo fatale all’identità democratica del Paese». Successivamente Hayut ha ribadito il concetto con parole ancor più chiare: «Non è un piano per riformare il sistema giudiziario, ma per schiacciarlo». Quest’ultima ha avuto anche un incontro con il presidente Herzog. «Un Paese in cui i giudici scendono in piazza per protestare - ha dichiarato invece Ayala Procaccia, ex componente della Corte Suprema, oggi in pensione - è un Paese in cui si sono superate le linee rosse».
Altrettanto veementi le reazioni delle opposizioni. L’ex primo ministro Yair Lapid non le manda a dire a Netanyahu: «Dal popolo non hai ricevuto un mandato per distruggere la democrazia. Le riforme proposte sono un cambio di regime estremo. Dobbiamo continuare a combattere nelle strade di tutto il paese in questa guerra per difendere la nostra casa». L’ex ministro della Difesa, il centrista Benny Gantz, ha prima detto «Netanyahu ci sta portando dritti al conflitto civile» e poi scritto, su Twitter: “Lotteremo in tutti i modi legali per prevenire un colpo di Stato”. Il deputato Zvika Fogel, del partito Oztma Yehudit (oggi alleato del Likud di Netanyahu), li ha subito accusati di fomentare una guerra civile: «Sono persone pericolose – ha detto -, dovrebbero essere arrestate per tradimento». Tzipi Livni, anche lei ex premier, ha promesso ai dimostranti: «Nessuno sarà al di sopra della legge, nemmeno il primo ministro». E tutto lascia pensare che le proteste aumenteranno d’intensità nei prossimi giorni. Ai manifestanti si sono già uniti gli oppositori della colonizzazione israeliana in Cisgiordania, e i movimenti di difesa dei diritti Lgbtq+, preoccupati dalla presenza nel governo di ministri apertamente omofobi. Alla manifestazione di Tel Aviv ha partecipato anche Eliad Shraga, da trent’anni presidente del “Movimento per un governo di qualità in Israele”, un’organizzazione no-profit che si è sempre dedicata a svelare casi di corruzione all’interno dell’esecutivo. Alla folla Shraga ha detto: «Ricordate sempre che preferiamo il freddo e la pioggia della democrazia liberale al caldo e all’inferno di una dittatura fascista». Shraga ha anche invitato il presidente Herzog a dichiarare Netanyahu “inadatto a servire come primo ministro”.
I pericoli del fondamentalismo
Dunque Israele con la sua decisione di asservire la magistratura al potere politico sembra aver imboccato con decisione la via della “democratura” (democrazia in apparenza, dittatura come sostanza) attualmente in corso in Ungheria con Orbàn, in Polonia con Morawiecki, in Turchia con Erdogan, per non parlare dei tentativi (falliti) di Bolsonaro in Brasile e di Trump negli Stati Uniti. Evidentemente per alcuni esponenti della destra estrema, una volta arrivati a conquistare il potere, diventa difficile resistere alla tentazione di silenziare il dissenso, di togliere voce alle opposizioni, di comprimere spazi di libertà, soprattutto delle minoranze. Anche se per Netanyahu il discorso appare differente: lui deve risolvere una questione personale. E’ ossessionato dalle accuse che gli sono state formalmente rivolte (corruzione, frode, violazione della fiducia), dai processi penali che i giudici hanno aperto nei suoi confronti “nonostante” il suo ruolo di premier (è il più longevo della storia d’Israele: questo è il sesto governo che presiede). E per risolvere definitivamente la questione è disposto a smantellare l’architettura democratica in vigore dalla creazione dello Stato d’Israele, nel 1948. C’è chi lo definisce un “golpe politico”, mentre il Jerusalem Postcontesta l’affermazione del premier che la riforma fosse stata annunciata nei dettagli in campagna elettorale. O chi, come Newsweek, in un editoriale pubblicato a fine dicembre, ritiene che Netanyahu e le sue ossessioni siano soltanto la punta dell’iceberg: «Questo governo è considerato il più di destra nella storia di Israele, ma è anche il primo in cui la maggioranza dei suoi membri sono religiosi», scrive lo storico Marc Schulman. «La natura di destra del governo, compresi i piani di alcuni membri per l'annessione della Cisgiordania, ha suscitato preoccupazione in tutto il mondo. Tuttavia, il vero pericolo che questo governo rappresenta per il futuro di Israele potrebbe essere la sua composizione religiosa. Gli obiettivi dei partiti sionisti ultra-ortodossi e religiosi mettono in pericolo la vitalità a lungo termine dello stato di Israele come stato ebraico e democratico, oltre a minare le basi economiche che hanno reso il paese un successo. La conclusione è che il più grande nemico di Israele è ora all'interno: la minaccia posta dai fondamentalisti alla democrazia liberale. Si può solo sperare che il popolo israeliano si ribelli presto contro il controllo dei fanatici». Dando così ragione a quanto Israel Today scriveva oltre un mese fa: «Il mondo arabo sta attendendo con impazienza la guerra civile israeliana, che porterà alla disintegrazione dello Stato d’Israele come lo conosciamo».