Foto: Surya Prakosa/Unsplash
Tra i tanti segni distintivi dell’Antropocene ve n’è uno particolarmente tragico: è la Sesta estinzione di massa, che noi umani abbiamo innescato e che ora sembra inarrestabile. Si tratta della massiccia diminuzione della biodiversità globale (il numero di specie e taxa superiori esistenti in tutti gli ecosistemi, terrestri e acquatici), simile, per proporzioni, ad eventi eccezionali accaduti solo raramente nell’intera storia della vita sulla Terra (si contano cinque grandi estinzioni di massa in tutto il Fanerozoico).
Come se ciò non bastasse, vi è un altro dato da aggiungere alla lista delle cattive notizie: la crisi della biodiversità ha infatti una “gemella”, una crisi parallela e ad essa strettamente legata, ma spesso ignorata. Si tratta della rapida perdita della diversità culturale e linguistica umana, un fenomeno che si amplifica in proporzione all’affermarsi della globalizzazione, e che interessa soprattutto aree del mondo in cui il tasso di biodiversità è particolarmente alto: ampie zone dell’India, dell’Indonesia, di Messico, Australia, Brasile, Cina...
Questo legame non è casuale: lungo millenni di coevoluzione tra l’uomo e l’ambiente, le società umane hanno sviluppato una profonda conoscenza della natura che le circondava e dalla quale traevano sostentamento, e hanno affinato tecniche e strategie per trarre dall’ambiente il necessario per vivere, imparando, allo stesso tempo, a preservare quella risorsa per le generazioni future. Questo bagaglio culturale, chiamato “traditional environmental knowledge”, si è rivelato essenziale nella gestione e nella conservazione della biodiversità.
A sollevare la questione è, in questo caso, un articolo pubblicato sulla rivista PNAS, che riporta alcuni interessanti modelli di comunità locali e tradizionali che hanno saputo proteggere il loro territorio grazie a conoscenze ancestrali, tramandate per generazioni. Riconoscere queste culture e ascoltare i loro insegnamenti è di vitale importanza per affrontare l’attuale crisi ecologica antropogenica: si tratta, infatti, di riscoprire che esiste un’alternativa al rapporto predatorio che il modello economico occidentale ha instaurato con la natura. «Realizzare la transizione da un sistema che spesso monetizza la natura a uno che riconosca tanto la biodiversità quanto la diversità culturale e linguistica come importanti pilastri della società non è facile», sostengono gli autori dell’articolo di PNAS. Tuttavia, i metodi e gli approcci di molte popolazioni indigene e i saperi tradizionali «offrono una valida dimostrazione del nostro bisogno di riconnetterci alla natura per proteggere le società dal disastro climatico ed ecologico».
Tutto questo viene riassunto dal concetto di diversità bioculturale, che comprende in sé le tre manifestazioni della diversità – biologica, culturale, linguistica – e ne riconosce la stretta interrelazione e interdipendenza. Biodiversità e diversità linguistico-culturale aumentano e diminuiscono insieme: laddove, a causa di pratiche scorrette, si innesca un processo di degrado ambientale, a risentirne sono anche le culture locali che hanno le proprie radici e la propria identità nel territorio; allo stesso tempo il declino della diversità culturale, causato dalle pressioni che le poche culture oggi dominanti esercitano sulle minoranze, contribuisce ad aggravare il degrado ambientale, in un circolo vizioso sempre più difficile da spezzare.
L’associazione Terralingua nasce proprio con l’intento di fermare questa spirale: a spiegarci la storia di questo impegno di ricerca e di azione sul campo è la direttrice – nonché cofondatrice – dell’associazione, la professoressa Luisa Maffi.
«Terralingua nasce nel 1996, dall’incontro inaspettato di un piccolo gruppo di persone, me compresa, che avevano scoperto di condividere l’idea che la biodiversità, la diversità culturale e la diversità linguistica siano manifestazioni congiunte e interdipendenti della diversità della vita sulla terra. Allora, venticinque anni fa, era un’idea nuova, e decidemmo di creare un’organizzazione che si dedicasse specificamente alla ricerca su quella che abbiamo definito “diversità bioculturale” e alla diffusione dei risultati sia negli ambienti accademici, sia nell’ambito delle politiche ambientali e sociali a livello internazionale, e tra il pubblico in generale.
Scoprimmo presto di aver avuto l’idea giusta al momento giusto, perché il concetto della diversità bioculturale cominciò a diffondersi rapidamente. Appena due anni dopo la fondazione collaborammo con il World Wildlife Fund alla creazione della prima mappa al mondo che mostra la sovrapposizione tra biodiversità e diversità linguistica e culturale, e che illustra il ruolo fondamentale dei popoli indigeni e dei loro saperi tradizionali nella conservazione della natura. Abbiamo poi lavorato molto con le organizzazioni internazionali, tanto quelle che si dedicano alla conservazione (in particolare l’International Union for the Conservation of Nature), quanto quelle incentrate su questioni di lingua e cultura (specialmente l’UNESCO), e nel corso degli anni il concetto della diversità bioculturale è entrato a far parte delle loro dichiarazioni di principi e dei loro programmi d’azione».
Plant Diversity vs. Language Diversity - Global Bioculture by @TerralinguaBCD #CURRENT #WORLD #ISSUES https://t.co/yad8CXGSVv pic.twitter.com/vsxk1Ds2hU
— The Decolonial Atlas (@decolonialatlas) October 26, 2017
Molto c’è ancora da fare, sottolinea la direttrice, per far sì che questo concetto diventi di dominio comune, e che guidi le politiche ambientali nazionali e sovranazionali. Ad esempio, nell’Agenda 2030 – che dovrebbe essere la principale guida per i decisori politici di tutto il mondo, nei prossimi decenni – non è mai menzionata la diversità linguistica, né si fa riferimento alla stretta correlazione fra i diversi ambiti in cui si esplica la diversità della vita. «Purtroppo, il meglio che posso dire sui Sustainable Development Goals (SDGs) è che sono una grande occasione mancata per il riconoscimento dell’ importanza della diversità culturale e di quella linguistica, intese sia di per sé che in relazione alla biodiversità», ammette Maffi. « Non c’è alcuna menzione esplicita del fatto che queste tre forme della diversità della vita sulla terra sono interconnesse e interdipendenti, e quindi che la tutela dell’una richiede anche la tutela delle altre». In ogni caso, continua la professoressa, «queste sono solo espressioni di principi e buone intenzioni, che non pongono alcun obbligo alle nazioni nel metterle in pratica. Ma questo, peraltro, è il problema centrale degli SDGs (già evidente, in precedenza, con i Millennium Development Goals): sono dichiarazioni non vincolanti, che non creano alcun impegno concreto per i paesi del mondo e che, per questo motivo, possono essere – e lo sono – ignorate a piacimento».
Il concetto di diversità bioculturale è, dunque, ancora ben lontano dal conquistare un pieno riconoscimento. Per raggiungere un simile obiettivo sarà necessario, secondo Maffi, un cambiamento ben più profondo di una semplice dichiarazione d’intenti: «C’è ancora molto da fare perché le nazioni del mondo riconoscano il concetto della diversità bioculturale. E, francamente, non credo che ci si possa arrivare senza un cambiamento fondamentale nei valori umani e nel modo prevalente di pensare e di agire della società globale. È la mancanza di questo cambiamento che spiega perché, a tutt’oggi, non stiamo riuscendo ad affrontare le molteplici crisi ecologiche e sociali che abbiamo creato e che ora ci minacciano: dal caos climatico alla perdita della biodiversità, alla distruzione degli ecosistemi, all’ingiustizia sociale. Se continuiamo a privilegiare la crescita economica a tutti i costi, a scapito della salvaguardia della vita sul pianeta, l’unico risultato che riusciremo a raggiungere sarà di continuare a scivolare verso l’autodistruzione. È per questo che ritengo estremamente importante riconoscere il valore della diversità culturale – non solo in un’ottica di sviluppo sostenibile, ma anche, in primo luogo, per la sopravvivenza della vita. L’esistenza e l’affermazione di visioni del mondo altre, che ancora riconoscono come la specie umana faccia parte della natura e da essa dipenda, invece di vivere separata e di considerarsi superiore ad essa, è essenziale per affrontare la crisi esistenziale in cui ci troviamo».
La nostra cultura contadina
Ma come possiamo, noi cittadini di ambienti del tutto antropizzati, disabituati al contatto con la natura, trarre insegnamenti concreti da modi di vivere così diversi dal nostro? Come possiamo comprendere un linguaggio così lontano dalla nostra esperienza? Secondo la professoressa Maffi, non è poi così difficile: «La lezione fondamentale che i popoli indigeni e le comunità locali possono insegnarci – o aiutarci a ricordare – è che, in quanto esseri umani, siamo parte integrante della natura, e che pertanto i nostri modi di vita e le nostre attività devono essere orientati a sostenere proprio quella natura che, a sua volta, sostiene noi e tutte le altre specie con cui condividiamo il pianeta. Una porzione sempre più grande dell’umanità, via via che si urbanizza e, di conseguenza, si allonana dalla natura, sta dimenticando questa semplice evidenza».
Per reagire a questo oblio, però, una soluzione è a portata di mano – anche qui da noi, nella modernissima Europa. Si tratta di recuperare quei saperi tradizionali ancora vivi, ad esempio, in molte parti del nostro Paese: «Spesso, la valorizzazione delle culture indigene o tradizionali è bollata come un atteggiamento “romantico” o “nostalgico”. Ma non c’è nulla di nostalgico nel ricordarci che facciamo parte della natura, mentre invece l’arroganza da cui ci siamo lasciati trascinare, ritenendoci separati, superiori e dominanti, è stata la fonte delle catastrofi ambientali e sociali da cui ora siamo travolti. I saperi e i modi di vita tradizionali possono e devono servire a farci ritrovare l’umiltà, e a farci ricordare quei valori e principi vitali necessari per ristabilire un rapporto di equa convivenza tra noi e l’intero mondo non umano».