SOCIETÀ

Dopo 19 anni l’Afghanistan cerca la pace

Il processo di pace in Afghanistan, dopo 19 anni di guerra, segna un nuovo faticoso passo in avanti. Dopo l’accordo concluso all’inizio dell’anno con gli Stati Uniti, i Talebani stavolta si trovano a trattare con il governo di Kabul, fino ad ora ritenuto da loro un fantoccio degli americani.

La trattativa si presenta dunque difficile e piena di ostacoli, eppure la sessione di incontri iniziata a Doha (Qatar) lo scorso 12 settembre, alla presenza del Segretario di Stato americano Mike Pompeo, rappresenta un primo timido riconoscimento reciproco. Se però si è arrivati a questo il merito è anche di Pugwash Conferences on Science and World Affairs, il movimento internazionale di scienziati per il disarmo che nel 1995 è stato insignito del Nobel per la Pace. L’ong, guidata dal 2002 da un segretario italiano, Paolo Cotta-Ramusino, è stata infatti la prima a mettere le opposte fazioni intorno a un tavolo. “Siamo stati noi, proprio in Qatar a partire dal 2015, ad organizzare i primi incontri riservati tra rappresentanti dei Talebani ed esponenti americani”, spiega oggi a Il Bo Live lo scienziato, già docente di fisica matematica all’università statale di Milano.

I nuovi sviluppi rientrano nel percorso di pace stabilito lo scorso marzo e sono stati resi possibili dal temporaneo superamento delle della rivalità tra Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah, ciascuno dei quali reclamava la vittoria alle presidenziali del 2019. La situazione è ancora tesa e confusa, ma per il momento è stata risolta riconoscendo a Ghani, molto restio a trattare con i Talebani, il ruolo di rappresentante ufficiale del governo di Kabul, mentre ad Abdullah è stata attribuita la presidenza del Comitato di riconciliazione nazionale (High Council for National Reconciliation – HCNR). Una situazione che dà l’idea di come le stesse fazioni siano estremamente frammentate al loro interno.

Ghani e Abdullah, ciascuno dei quali reclamava la vittoria alle presidenziali del 2019, adesso sono entrambi coinvolti nei colloqui di pace con i Talebani

Professor Cotta-Ramusino, come giudica questo inizio dei colloqui?

“È una cosa molto buona innanzitutto che gli afghani si siano trovati tra loro; inoltre rispetto agli accordi di marzo la questione dello scambio dei prigionieri, dalle informazioni che abbiamo, sembra sia andata avanti abbastanza bene. Il problema è che in questo scenario i santi non sono separati dai peccatori: ogni parte ha interessi specifici, spesso non sono solo ideologici e religiosi ma anche tremendamente concreti”.

Quali sono gli ostacoli maggiori?

“In primo luogo decidere se costituire o meno un interim government che includa anche i Talebani, oltre al ruolo da assegnare agli attuali rappresentanti del governo. Si tratta anche di capire come gestire un Paese ancora diviso in zone controllate dalle diverse forze, spesso con soluzioni di continuità e grandi difficoltà di comunicazione. Il problema maggiore – oltre all’epidemia di Covid, molto grave anche in Afghanistan – è però come rimettere in piedi l’economia, pesantemente distrutta in questi anni. Di per sé il Paese avrebbe una serie di vantaggi e di ricchezze potenziali, a partire da quelle minerarie, ma bisogna capire come gestirle”.

Si parla di ritorno della Sharia e di compressione di una serie di conquiste a favore delle minoranze e dalle donne. I talebani sono gli stessi del 2001 o sono cambiati?

“In 19 anni è ovvio che siano decisamente cambiati. La questione delle donne – pure importante – è sempre stata usata soprattutto dal governo americano per legittimare l’intervento in Afghanistan di fronte alla propria opinione pubblica: su questo punto ci sono problemi, ma credo non così insormontabili. Anche sulle divisioni etniche i Talebani appaiono al momento molto più attenti rispetto al passato. Poi naturalmente bisogna vedere come verranno messi in pratica gli accordi”.

Pensa che Trump cercherà di concludere il ritiro dei soldati americani entro le elezioni presidenziali del 3 novembre?

“Non credo assolutamente che ci riesca. Per il resto il presidente Trump ha sempre cercato di togliersi di mezzo da una guerra che per moltissime ragioni è stata penosa e non ha certamente giovato all’immagine degli Stati Uniti. Doveva essere un intervento veloce e si è rivelato di durata infinita, anche per l’incapacità americana di capire e di gestire una situazione locale difficile e frammentata. Rendiamoci conto che in Afghanistan esistono una corruzione e una conflittualità enormi: i signori della guerra, oltre che con il governo, si sono sempre combattuti anche tra loro”.

Crede che si possa arrivare a un accordo?

 “Speriamo bene! Nel 1993 a Oslo sembrava che il problema della Palestina fosse risolto, poi abbiamo visto com’è andata… – commenta amaro Cotta-Ramusino – Speriamo che comunque stavolta sia diverso, ma tutta quella zona è complicata; non c’è solo l’Afghanistan: abbiamo anche il grossissimo problema del rapporto tra India, Pakistan e adesso anche la Cina. Il problema principale, lo ripeto, è trovare un modo per condividere il potere: se questo non avviene l’accordo non funziona. Poi ci sono le risorse: rendiamoci conto che gli americani e il mondo occidentale dal 2001 hanno speso in Afghanistan più o meno due trilioni di dollari, 2.000 miliardi. Con questi soldi si poteva trasformarla nella Svizzera dell’Asia entrale, invece hanno fomentato una corruzione spaventosa”.

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