SCIENZA E RICERCA

Foto dallo spazio, un incontro tra arte e scienza

Giorni fa molte testate, compresa la nostra, hanno parlato delle immagini dello spazio catturate dal James Webb Space Telescope. Sono foto senza dubbio affascinanti, che ci hanno lasciati a bocca aperta, ma sono davvero rappresentative dell'aspetto reale dell'universo?

Qualsiasi macchina fotografica, infatti, modifica in qualche modo i colori che vediamo: a molti, per esempio, è capitato di mettere in vendita un oggetto su Internet e di ricevere un reclamo perché il colore non era lo stesso dell'immagine. Nessuna malafede: semplicemente la macchina fotografica non ha catturato esattamente il colore reale, e poi magari ci si è messo lo schermo dell'acquirente, che a sua volta ha falsato i colori (i grafici, per esempio, usano un dispositivo che si chiama calibratore per rendere i colori dello schermo quanto più oggettivi possibile).
Non solo: nella percezione cromatica ci possono essere anche notevoli differenze tra un individuo e un altro perché, esattamente come accade con le macchine fotografiche, gli occhi non vedono nello stesso modo, anche senza sconfinare nel patologico, come nel caso dei daltonici.

Se parliamo di immagini provenienti dallo spazio, la discrasia tra colore reale e restituzione fotografica aumenta a dismisura, perché si riprende con tecnologie particolari, per esempio sensori o filtri adatti all'infrarosso, quindi le foto vengono colorate solo in un secondo momento in fase di editing. Ma come si decide quali colori usare? E, soprattutto, quale impatto ha questa scelta  sull'immaginario dei destinatari? Lo chiediamo a Elisabetta Bonora, divulgatrice scientifica specializzata nell'editing delle immagini spaziali.

Servizio di Anna Cortelazzo e montaggio di Barbara Paknazar

Per prima cosa bisogna andare a chiarire cosa si intende per colore reale. "Il colore in sé - spiega Bonora - è una sorta di sensazione visiva, cioè il modo con cui il cervello degli esseri viventi risponde allo stimolo di una radiazione elettromagnetica in uno specifico intervallo di lunghezze d'onda, e l'occhio umano poi lavora in un range specifico, che è quello che viene chiamato lo spettro visibile. Poi c'è il discorso della resa cromatica, che ovviamente non è uguale per tutti e può cambiare non solo da specie a specie ma anche tra gli esseri umani: non dipende solo dalle nostre capacità visive ma è legata anche, per esempio, al nostro stato d'animo".
E quindi il colore reale è quello che non è mediato da alcun dispositivo, eppure non è comunque al 100% oggettivo. Le immagini che vengono editate e restituite come le abbiamo viste in questi giorni, però, a livello scientifico sono meno utili, perché non restituiscono tutte le informazioni che raccoglie uno strumento inviato nello spazio. Questi dati, però, sarebbero visivamente difficili per i non addetti ai lavori, e in questo senso le foto editate aiutano ad avvicinare la cittadinanza alla scienza.
Bonora fa poi l'esempio di Marte: ce lo immaginiamo di un rosso vivo e molto luminoso, eppure è probabile che il primo uomo che sbarcherà su questo pianeta troverà un'atmosfera crepuscolare, perché il nostro occhio non ha le stesse capacità degli strumenti artificiali di amplificare i fotoni, e quindi le immagini che ci arrivano potranno essere molto diverse da quelle che coglierà l'occhio umano.

E poi ci sono le foto editate, che permettono di apprezzare delle caratteristiche che altrimenti non sarebbero visibili ai nostri occhi e che ci permettono di apprezzare delle lunghezze d'onda estranee al nostro range visivo. Chi si occupa di editing porta alla luce tutto questo, combinando le immagini catturate a diverse lunghezze d'onda (alcune, appunto, invisibili all'occhio umano ma capaci di dare informazioni in più agli scienziati). "È un lavoro lungo - spiega Bonora - perché una singola immagine può essere composta da centinaia di frame per ciascun canale, cioè per il rosso, il verde e  il blu, e questi frame vanno impilati correttamente per ottenere un buon risultato, anche perché nello spazio tutto è in movimento e anche un secondo tra uno scatto e l'altro può fare una grossa differenza".

Questa ricolorazione artificiale, però, ha dato adito ad alcune polemiche.

Alcuni  storici dell'arte, in particolare, hanno individuato nella palette della Nasa delle similitudini con quella dei quadri che raccontano la conquista del West. È stata quindi fatta l'ipotesi che queste palette potrebbero indirizzare la percezione dei destinatari delle immagini verso determinati messaggi.
Secondo Bonora, però, è un caso di pareidolia, quel fenomeno che ci porta a vedere forme conosciute in forme sconosciute, come quando diciamo che una nuvola sembra proprio un coniglio. In questo caso sarebbe una pareidolia cromatica: in realtà la scelta di una palette piuttosto che un'altra viene fatta per favorire l'analisi e l'interpretazione delle immagini, mettendo il più possibile in risalto i dettagli, nonché per fornire un risultato esteticamente gradevole, tanto più che molte missioni mettono a disposizione del pubblico i dati grezzi (ci sono anche quelli di Webb), cioè quelle centinaia di immagini che vengono sovrapposte per restituire al pubblico le foto che vedrà su siti e riviste.
"Queste immagini - conclude Bonora - sono un prodotto in cui la scienza e l'arte si incontrano. Credo che chi fa editing su queste foto debba avere una certa sensibilità artistica, perché c'è un grande lavoro nel pulire le foto e nel mettere in risalto i dettagli. Poi alcune immagini che sono scientificamente interessanti sono in effetti anche molto belle di per sé, armoniose come dei quadri". La scienza, insomma, oltre a tutti gli altri pregi, a volte sa anche essere bella ed emozionante esteticamente!

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