Il presidente della Francia, Emmanuel Macron. Foto: Reuters
La permanenza all’Eliseo di Emmanuel Macron non è una sorpresa: gli “estremismi” dei suoi competitor, a partire dall’ormai “eterna seconda” Marine Le Pen, hanno giocato certamente a favore della sua rielezione, come anche l’alta astensione (28%). Ma la strada che ha davanti è tutt’altro che in discesa. Tra meno di due mesi (12-19 giugno) si terranno le elezioni legislative: sarà eletto un nuovo Parlamento e nominato un nuovo primo ministro. E sia Le Pen (estrema destra) sia Mélenchon (estrema sinistra, che ha sfiorato il ballottaggio per pochi decimali e per non aver saputo raggiungere un accordo con gli altri partiti di sinistra) puntano sull’abbrivio elettorale per mobilitare i propri sostenitori con l’obiettivo di formare una forte opposizione parlamentare al presidente appena rieletto. Come dire: Macron, soprattutto in questo momento storico, in un così delicato contesto internazionale, non poteva non vincere. Ma la sua elezione non porterà mare calmo, anzi: le divisioni nel Paese stanno aumentando, e la Francia sembra una pentola a pressione. Oltre 12 milioni di francesi hanno votato Le Pen al ballottaggio (5 milioni in più rispetto alle presidenziali del 2017), una candidata filo-russa che vorrebbe portare la Francia fuori dalla Nato e fuori dall’Unione Europea. Per non parlare dei giovani, che già al primo turno, nella fascia 18-34 anni, hanno votato in netta maggioranza per Jean-Luc Mélenchon. Entrambi terminali, per così definirlo, di un malcontento vivo, reale, concreto. E non saranno le parole rassicuranti scelte da Macron per salutare la sua rielezione («Nessuno sarà lasciato indietro, dovremo rispondere alla rabbia del Paese») a placare gli animi. Come se la vera sfida politica cominciasse ora. Come se le legislative di giugno fossero in realtà un “terzo turno” delle presidenziali.
La Marseillaise. 🇫🇷 pic.twitter.com/j94iGyXdyg
— Emmanuel Macron avec vous (@avecvous) April 24, 2022
La rabbia alle urne
Il primo a rendersene conto è lo stesso Macron: il vantaggio di 17 punti al ballottaggio di domenica scorsa non è un risultato di sua proprietà, del quale intestarsi il merito. «So che molti francesi hanno votato per me non per sostenere le idee che sostengo, ma per sbarrare la strada all’estrema destra. Per non votare “lei”» - ha dichiarato nel suo discorso di vittoria, domenica sera a Parigi, sugli Champs de Mars. «Sarò debitore per questo voto nei prossimi cinque anni». Parole che potrebbero svelare quel che, verosimilmente, potrebbe accadere entro l’estate. Perché il tema portante da affrontare, per la Francia, resta quello della rabbia, che trasversalmente e radicalmente sta attraversando il Paese. L’aveva detto lo stesso Mélenchon ai suoi elettori, dopo il primo turno: «Conosco la vostra rabbia, ma non permettetele di farvi commettere errori che sarebbero irreparabili. Ora tocca a voi. Non un solo voto a Marine Le Pen». E gran parte dei suoi sostenitori ha eseguito. Emblematica, tra le moltissime raccolte in queste ore dai media francesi, la testimonianza di Gaëlle, 52 anni, bibliotecaria a Rennes, che al primo turno aveva votato Mélenchon: «Ho esitato a votare in bianco fino alla cabina elettorale», ha dichiarato alla radio all news France Info. «Mi incolperò per settimane per aver votato contro le mie convinzioni. Ho le lacrime agli occhi. Non mi aspetto niente da Emmanuel Macron, non mi piace la sua arroganza. Noi siamo il piccolo popolo, lui è un monarca. E’ il presidente dei ricchi, non ha niente a che fare con noi». E un altro ragazzo ha aggiunto, pragmatico: «Ho esitato ad andare a votare. Ma almeno, votando Macron, tra cinque anni potremo votare di nuovo». Rabbia che cova anche a destra, nelle roccaforti che hanno portato Marine Le Pen alla “migliore sconfitta di sempre” (ma dove già qualcuno comincia a ragionare sul “dopo Le Pen”). Un voto di insofferenza per le politiche migratorie, considerate troppo tolleranti, per la percezione d’insicurezza, per la crescente precarietà, perfino per le “manovre” dell’Unione Europea, che pochi giorni prima del voto aveva accusato la stessa Le Pen e i parlamentari del suo gruppo di aver sottratto circa 600mila euro di denaro pubblico europeo durante il loro mandato di eurodeputati: «Sono abituata a questi sporchi trucchi dell’UE», aveva risposto la candidata della destra.
Focolai di protesta nelle Università
Da qui in avanti, in questa Francia ormai tripolare (destra-sinistra-establishment: i partiti tradizionali sono crollati) tenuta insieme da un Presidente tutt’altro che amato e che sempre più sarà bersaglio di contestazioni, può succedere di tutto. Piccoli focolai di protesta si sono già accesi in diverse Università francesi (dalla Sorbonne a Sciences-Po, all’École Normale Supérieure) con i movimenti studenteschi fermi nel sostenere i temi della democrazia e del rispetto del clima. E con i Gilets Jaune che già minacciano di tornare a sconvolgere l’ordine sociale, dopo le violente proteste nate nell’autunno del 2018. Emmanuel Macron, ferma restando l’incolmabile distanza che lo separa dalle istanze della destra (con Marine Le Pen tutt’altro che finita politicamente, nonostante le tre sconfitte consecutive alle presidenziali) e al netto di quello che sarà il risultato delle prossime elezioni legislative, ha due strade davanti a sé: nominare un primo ministro di En Marche! (la formazione politica da lui stesso fondata nel 2016) oppure, più realisticamente, affidare l’incarico a una personalità che in qualche modo possa essere gradita alla sinistra. Per due ragioni fondamentali. La prima, più realistica, per un debito di riconoscenza, come evocato dallo stesso Macron pochi minuti dopo la sua rielezione, quasi fosse un’urgenza da rimarcare: «Sarò debitore per il vostro voto nei prossimi cinque anni». Tradotto: è grazie ai voti del centrosinistra se sono stato rieletto. La seconda ragione è di ordine pratico: un primo ministro proveniente da quell’area potrebbe placare gli animi almeno di una parte degli “insoddisfatti”, anche se costringerebbe Macron ad avallare parte delle aspettative della sinistra (e i punti di disaccordo non mancano, a partire dalla riforma delle pensioni). Nonostante lo stesso Mélenchon abbia commentato a caldo l’elezione del Presidente con toni aspri, già da campagna elettorale: «Il signor Macron è il peggiore tra i presidente eletti della Quinta Repubblica, galleggia in un oceano di astensionismo e di schede bianche. A tutti voi dico: non rassegnatevi. Da stasera comincia il terzo turno: alle elezioni legislative possiamo battere Macron». Fino a candidarsi lui stesso alla carica di primo ministro. Arrivando al paradosso che il vero vincitore delle presidenziali potrebbe diventare colui che l’ha sfiorato per poche migliaia di voti.
Per Macron si profila dunque un successo dal retrogusto amaro. Conserva il ruolo per la gioia dei mercati finanziari e dell’Unione Europea (perfino Putin si è congratulato per il successo), ma dovrà fare concessioni. Dovrà scendere a patti. Dovrà (o tenterà di) scrollarsi di dosso quell’immagine patinata di impeccabile punto di riferimento del capitalismo e sporcarsi le mani (e le vesti: l’ha già fatto in campagna elettorale) nel tentativo di risolvere alcuni dei problemi più urgenti per i francesi. «Non fischiate gli avversari: non sono più il candidato di un campo, ma il presidente di tutti», ha detto alla folla festante in Champs de Mars. Del resto potrebbe essere questa l’unica “chiave” per arginare l’avanzata di una destra che fa paura e che mai, dal dopoguerra, aveva raggiunto una simile quantità di consensi. E che proprio per questo non mollerà la presa, tentando di aumentare ancor più la sua influenza, soprattutto se Le Pen riuscirà a raggiungere qualche forma di accordo con Éric Zemmour, estrema destra, che al primo turno aveva ottenuto un 7%. Con Marion Maréchal, nipote di Marine Le Pen ed ex deputata del Front National, nominata pochi giorni fa vicepresidente di Reconquête!, il partito di Zemmour.
Tutto si salda e si definisce. La destra ne esce più nitida e spavalda, ma ben attenta a mostrare il suo lato più moderato, a farsi portatrice non di rancori, ma di istanze e di speranze (il che le porterà grandi successi alle legislative). Con la sinistra che intravede finalmente una scorciatoia per tornare a contare, dopo anni di retrovia. E con Macron che aspira a essere voce e immagine di una Nuova Europa, anche a costo di “tradire” il se stesso che abbiamo finora conosciuto. Una politica “in maschera”. La tregua, in Francia, andrà avanti fino al prossimo 19 giugno: l’esito del voto legislativo sarà determinante per disegnare il prossimo futuro.