SOCIETÀ
L'India fa dietrofront sulla riforma dell'agricoltura. Ma i dubbi restano
Una delle ultime proteste degli agricoltori indiani. Foto: Reuters
Prima la gioia sfrenata, poi i primi dubbi, accompagnati da una crescente cautela. E alcune domande, che s’insinuano insistenti nel dibattito pubblico indiano: cosa si nasconde dietro all’improvviso, e inusuale, dietrofront deciso dal premier Narendra Modi, che pochi giorni fa ha annunciato il ritiro della sua contestatissima riforma agraria, che puntava a liberalizzare il commercio favorendo i grandi gruppi e mettendo in ginocchio i piccoli produttori? Come mai “l’uomo forte” indiano, noto per le sue posizioni inflessibili e liberiste, freddo e calcolatore, tutt’altro che morbido con i dissidenti, ha deciso di compiere questo passo proprio ora, dopo oltre un anno di enormi manifestazioni di protesta che hanno coinvolto milioni di persone e decine di associazioni sindacali, con un tributo di oltre 600 manifestanti uccisi in vari scontri con la polizia e con i nazionalisti indù? Perché mai il premier avrebbe deciso un così repentino cambio di strategia? Si tratta davvero di una “sconfitta” per il governo in caricao magari è frutto di un calcolo politico, visto che fra appena tre mesi si terranno elezioni in alcuni stati chiave del Paese, a partire dall’Uttar Pradesh, il più popoloso della Confederazione indiana, con oltre 200 milioni di abitanti? E infine: davvero sicuri che il governo Modi abbia intenzione di abrogare le leggi in questione? E che non salteranno di nuovo fuori, magari inasprite, a elezioni concluse?
“Siamo agricoltori, non terroristi”
Al momento sono sospetti. Ma le recenti e tutt’altro che brillanti performance elettorali del Partito nazionalista indù guidato da Modi (il Bharatiya Janata Party, BJP) nel Bengala occidentale e nello stato settentrionale dell’Himachal Pradesh, alimentano l’ipotesi che di cinica manovra politica si tratti, di quelle studiate a tavolino, per riconquistare il consenso perduto proprio a causa del pugno duro usato contro gli agricoltori negli ultimi quattordici mesi. Il governo ha tentato in ogni modo di schiacciare il dissenso: con la violenza, le minacce, con gli arresti indiscriminati, con il “black out social” imposto agli attivisti per impedire qualsiasi pubblico sostegno alla causa dei contadini. C’è la brutalità della polizia, che ha usato gas lacrimogeni e cannoni ad acqua per disperdere i manifestanti e impedire loro più volte di entrare a Delhi. Soprattutto, ci sono le parole pronunciate in questi mesi dai parlamentari del BJP: hanno definito gli agricoltori “terroristi”, antinazionalisti con l’unico intento di “cospirare contro l'India” e separatisti sikh (sono stati chiamati “Khalistanis”, termine riferito a coloro che si battono per creare uno stato sikh indipendente). Al proposito, l’Economic Times indiano riporta le conclusioni di alcune agenzie di intelligence, secondo le quali dietro la decisione del governo indiano di abrogare le leggi agricole ci sarebbero proprio i timori di una crescente infiltrazione nei movimenti di protesta degli agricoltori “degli elementi più radicali”, come Sikhs for Justice (SFJ), gruppo secessionista con sede negli Stati Uniti che sostiene la creazione dello Stato del Khalistan (e il referendum pro-secessione organizzato da SFJ nel Regno Unito ha visto un’enorme partecipazione di sikh: domenica scorsa oltre ventimila persone si sono recate ai seggi allestiti a Leicester, Derby e Coventry). Come se il premier avesse improvvisamente realizzato che il prezzo politico da pagare per il braccio di ferro con gli agricoltori fosse troppo alto. E deciso di virare per tempo, esponendosi perfino a una brutta figura pur di evitare il tracollo elettorale. Anche perché la metà della popolazione dell’intera India, circa 650 milioni di persone, vive di agricoltura. E dilagano il malcontento e la povertà (l’86% dei proprietari terrieri indiani possiede meno di due acri di terra, e l’aumento quotidiano dei prezzi di fertilizzanti, sementi e carburanti li sta mettendo in grave difficoltà): il loro voto ha un “peso” non da poco.
La riforma agraria, fortemente e bruscamente voluta dai nazionalisti indù nel settembre 2020 (la diretta tv era stata silenziata per impedire agli spettatori di ascoltare le ragioni delle opposizioni) si componeva di tre leggi, poi congelate dalla Corte Suprema indiana, proprio nel tentativo di favorire una mediazione tra governo e contadini. L’obiettivo dichiarato del governo era, in sostanza, la “semplificazione del settore”, con norme che avrebbero garantito alle aziende private di poter vendere i loro prodotti al di fuori dei mercati all’ingrosso regolamentati dallo Stato (che garantiscono un prezzo minimo di acquisto). Il governo voleva scrollarsi di dosso il peso dei sussidi ai contadini e dei prezzi calmierati, oltre ad attrarre nuovi investimenti (privati) nell’agricoltura e nell’industria della trasformazione, due settori che hanno estremo bisogno di essere “modernizzati”. Gli agricoltori temevano che la mossa puntasse a favorire i grandi gruppi industriali, che avrebbero potuto fissare a loro piacimento il prezzo di acquisto dei prodotti agricoli, soprattutto riso e grano. Perciò si sono opposti, da subito e con grande coesione, ai piani del governo. Dapprima accampati con trattori e camion ai confini della capitale New Delhi in un gigantesco sit-in permanente, poi spingendosi a più riprese fin sotto la sede del Parlamento per protestare, compatti. Resistendo alle violenze della polizia e al dilagare della pandemia (il premier ha “festeggiato”da poco la somministrazione della miliardesima dose, ma secondo The Economist è il virus ad aver battuto l’India, non il contrario), reagendo con pacatezza e fermezza perfino di fronte alla morte di centinaia di attivisti. E conquistandosi un vasto sostegno internazionale, dalla cantante pop Rihanna all’attivista Greta Thunberg.
Chi si fida del premier nazionalista?
Quindi non c’è dubbio che l’annuncio del premier di voler abrogare le norme sia stata una vittoria per i contadini. Ma la tempistica e le parole usate da Narendra Modi venerdì 19 novembre, quando in diretta tv ha annunciato il passo indietro del governo, cogliendo di sorpresa non soltanto i contadini ma anche i suoi stessi seguaci, non convincono affatto: «Oggi chiedo perdono ai miei connazionali e dico con cuore puro e mente onesta che forse c’è stata qualche mancanza», ha scandito con tono contrito il premier indiano. Eppure il Bharatiya Janata Party, al potere dal 2014, ha fatto del nazionalismo la sua cifra politica, soffocando progressivamente nel Paese la libertà di parola e di dissenso. Inseguendo il grande progetto di “un’India per soli indù”, attraverso la persecuzione e la progressiva esclusione di tutte le minoranze religiose, dai musulmani ai cristiani. Per dire: nel dicembre 2019, il governo di Modi ha promulgato il Citizenship Amendment Act (CAA), che agevola la concessione della cittadinanza (prima era vietata) agli immigrati illegali in fuga dalle persecuzioni religiose provenienti da Afghanistan, Pakistan e Bangladesh, ma solo a patto che non siano musulmani. Appena il mese scorso ha fatto scalpore un messaggio video di un leader religioso indù dello Stato del Chhattisgarh (India centrale), che alla presenza di leader di spicco del BJP incitava alla violenza, invitando i presenti a “tagliare la testa a quelli che vengono per convertirvi”, riferendosi alla presenza di cristiani. «Chiunque viene a convertire nella vostra casa, nella vostra strada, nel vostro quartiere, nel vostro villaggio, non deve essere perdonato», ha detto lo swami (“colui che sa”) Parmatmanand.
LEGGI ANCHE:
Non proprio un inno alla tolleranza, alla fratellanza, alla coesione. Anche per questo le promesse del premier Narendra Modi, considerato da diversi analisti “un dittatore nei panni di un democratico”, non bastano ai partiti di opposizione e ai sindacati agricoli, che hanno deciso di non sospendere lo stato di agitazione. E in attesa che il Parlamento voti la legge che abrogherà formalmente la riforma agraria così com’era stata presentata (l’esame del testo comincerà lunedì prossimo, 29 novembre), il Samyukta Kisan Morcha (Skm, Fronte unito degli agricoltori) ha annunciato che gli accampamenti alle porte della capitale non verranno smantellati. L’Skm ha poi inviato una lettera aperta al governo con diverse richieste: dall’approvazione della legge che ripristina il prezzo minimo garantito, alla cancellazione di tutti i procedimenti a carico dei manifestanti, oltre a chiedere punizioni per la strage di Lakhimpur Kheri (quattro dimostranti travolti e uccisi da una jeep guidata da un membro del BJP: tra gli indagati c’è anche il figlio di un ministro del governo Modi) e pretendere indennizzi per le famiglie degli oltre 600 contadini morti durante le proteste. Attenzione alta, tensione alta. Gli agricoltori puntano a “cavalcare” il nervosismo di Modi di fronte ai sondaggi che virano pericolosamente in basso per il Bharatiya Janata Party. Il vento, al momento, sembra girare a favore dei dimostranti. Almeno fino al prossimo voto. Poi, probabilmente, la situazione cambierà.