L’operazione Cisgiordania sta diventando un boomerang per Benjamin Netanyahu. L’annessione formale di parte dei territori occupati dai coloni israeliani (terra sottratta unilateralmente, illegalmente, ai palestinesi a partire dal 1967) era stata annunciata dal premier israeliano per l’1 luglio scorso, forte dell’appoggio del presidente americano Donald Trump e di quel suo presunto piano di pace (ribattezzato dallo stesso Trump “l’accordo del secolo”) , clamorosamente sbilanciato a favore delle istante israeliane e perciò accolto con cautela, diffidenza, contrarietà dalla comunità internazionale. Ebbene, la data è trascorsa e nulla è accaduto. Nessuna parata, nessun pezzo di carta ufficiale, per quanto unilaterale. Nessuna dichiarazione, nessun incontro simbolico. Nulla. In silenzio Netanyahu, di certo imbarazzato nell’essere stato costretto a riporre, o quantomeno a frenare, la sua abituale baldanza. Qualche parola soltanto da Benny Gantz, leader del partito Blu-Bianco, suo sodale nel governo di emergenza nazionale varato in Israele dopo un interminabile stallo politico (circa un anno e mezzo), attuale ministro della Difesa e destinato a subentrare a Bibi come premier nel 2021: «Affrontare il coronavirus e le sue conseguenze socioeconomiche e sanitarie: queste sono le questioni più urgenti di cui dobbiamo occuparci», ha dichiarato. Eppure l’annessione dei territori era un punto chiave dell’accordo di governo. Alla vigilia del D-Day lo stesso Gantz, alla domanda “cosa accadrà domani”, aveva risposto con una battuta: «E cosa volete che succeda? Il sole sorgerà a est e tramonterà a ovest».
L’illegalità tollerata e la controproposta palestinese
Sia chiaro, nulla cambia di fatto: gli insediamenti israeliani in Cisgiordania (circa il 30% del territorio), oggi abitati da circa 450mila israeliani in 132 comunità ufficialmente riconosciute e 112 avamposti non ufficiali (qui un approfondimento) restano comunque lì dove sono. Il passaggio previsto è di pura forma. Ma la forma può diventare sostanza, soprattutto di fronte alla pretesa di trasformare in conquista giuridica un’illegalità di fatto tollerata dalla comunità internazionale in questi ultimi 53 anni. Il problema, per Netanyahu, è che nessuno sembra aver voglia di mettersi a ridisegnare cartine e confini. Anche per ragioni diversissime tra loro. Il primo intoppo arriva proprio da Washington: l’appoggio degli Stati Uniti è condizionato dall’applicazione integrale del “piano di pace”, che per quanto sbilanciato a favore di Israele prevedeva comunque una sorta di compensazione per i palestinesi. Che mai è stata però quantificata, anche perché i palestinesi si sono sempre rifiutati di sedersi a qualsiasi tavolo con queste premesse, anzi minacciando l’avvio di una nuova intifada qualora Israele avesse proceduto con l’annessione dei territori. L’unico gesto dell’Autorità Nazionale Palestinese in questi ultimi giorni è stato l’annuncio di una controproposta: «Siamo pronti a riaprire colloqui bilaterali diretti dove si sono fermati», ha scritto Mohammad Shtayyeh, primo ministro palestinese, in una lettera inviata al “quartetto della Pace”, vale a dire Nazioni Unite, Stati Uniti, Unione Europea e Russia.
Migliaia di palestinesi continuano comunque a scendere in piazza in attesa di capire cosa accadrà. Ma intanto l’emergenza ha avuto l’effetto di ricompattare il fronte politico: un’intesa “per rovesciare l’accordo del secolo promosso dagli Usa” è stata annunciata in una conferenza congiunta a Ramallah con Al-Fatah, Hamas e la Lista Araba Unita, il terzo partito rappresentato alla Knesset, che ha dichiarato il suo sostegno alla “riconciliazione palestinese”. «Quello attuale è il momento più pericoloso per il popolo palestinese», ha dichiarato Jibril Rajoub, segretario del Comitato centrale di Fatah, indicato come uno dei probabili successori di Abu Mazen.
A rischio gli accordi di pace con Egitto e Giordania
Secondo molti analisti l’annessione unilaterale dei territori occupati potrebbe inoltre trasformarsi in un enorme problema di sicurezza esterna, con i paesi limitrofi (Egitto, Giordania, entrambi a maggioranza araba) che sarebbero di fatto obbligati a prendere una posizione ufficiale contro l’annessione. Una mossa che potrebbe incrinare i piani di pace. E dunque a indebolire, quantomeno, quella sorta di “cintura di sicurezza” (la definizione è del Post) costruita da Israele attorno al proprio territorio. Ma c’è di più. Scrive la rivista Foreign Policy: «Il 3 aprile scorso 220 generali, ammiragli e leader israeliani in pensione del Mossad, Shin Bet e membri del Cis (Commanders for Israel’s Security), hanno firmato un annuncio a tutta pagina sui giornali israeliani, esortando i loro ex colleghi al governo - in particolare Benny Gantz e Gabi Ashkenazi, entrambi ex capi di stato maggiore delle forze di difesa israeliane - a insistere per bloccare l’annessione unilaterale del territorio della Cisgiordania». Pochi giorni dopo analogo appello è stato firmato da 149 leader ebrei americani, e a seguire hanno preso posizione 11 membri del Congresso degli Stati Uniti: tutti d’accordo nel sottolineare le conseguenze negative di una tale mossa.
La contrarietà della Comunità Internazionale è nota da molti anni, ma è stata comunque ribadita dal segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres: «L’annessione di parti della Cisgiordania occupata costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale, danneggerebbe seriamente la prospettiva di una soluzione a due Stati e minerebbe le possibilità di ripresa dei negoziati». Perfino il premier inglese Boris Johnson ha acceso il semaforo rosso firmando un editoriale pubblicato dal quotidiano israeliano Yedioth Ahronoth: «In qualità di amico, ammiratore e sostenitore di Israele di vecchia data - ha scritto Johnson -, temo che queste proposte falliranno nel loro obiettivo di proteggere i confini di Israele e andranno contro i suoi stessi interessi a medio termine. Spero profondamente che il piano israeliano di annettere parti della Cisgiordania non vada avanti. Se lo farà, il Regno Unito non riconoscerà alcun cambiamento rispetto ai confini del 1967, eccetto quelli concordati dalle parti». Anche il rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea, Josep Borrell ha formalmente dichiarato che «i 27 Paesi del blocco Europeo non riconoscono la sovranità israeliana sul territorio palestinese. L’annessione del territorio palestinese costituirebbe una grave violazione del diritto internazionale: e l’UE agirà di conseguenza».
La solitudine di Netanyahu
Così Bibi Netanyahu improvvisamente, incredibilmente, si trova solo e disarmato. Con le sue piantine improvvisate, dove sperava di disegnare i nuovi confini di Israele e di conquistare così nuovi consensi. Perché anche in patria aumentano i dissensi. Meno di un mese fa la Corte Suprema israeliana ha annullato, definendola “incostituzionale”, la legge del 2017 (il premier era Netanyahu, naturalmente) che avrebbe legalizzato gli insediamenti ebraici in Cisgiordania (circa 4mila abitazioni) costruiti su terra privata palestinese. “La legge – scrive la Corte - viola i diritti di proprietà e di eguaglianza dei palestinesi mentre privilegia gli interessi dei coloni israeliani sui residenti palestinesi». E Benny Gantz si è affrettato a dichiarare: «La decisione della Corte sarà rispettata. Il mio partito (Blu-Bianco) si assicurerà che sia rispettata».
E, come se non bastasse, l’aChord Center (un istituto universitario di Gerusalemme che si occupa di Psicologia sociale per il cambiamento) ha pubblicato i risultati di un sondaggio, condotto nel mese di giugno di quest’anno, secondo il quale oltre due terzi degli israeliani (il 69%) sarebbe contrario, per diverse ragioni, al piano di annessione. E tra i contrari, oltre alle formazioni filo arabe e di sinistra, anche gli elettori dell’ultradestra e gli stessi coloni, che pretenderebbero l’annessione senza nulla voler concedere ai palestinesi, nemmeno il diritto ad avere uno stato, come invece il piano Trump prevedrebbe.
Bibi al bivio e i timori per le elezioni in Usa
La ciliegina sulla torta della solitudine di Netanyahu riguarda infine la rielezione di Donald Trump, il suo unico alleato in questa frenetica e impulsiva rincorsa all’annessione dei territori occupati. Una rielezione quanto mai in bilico (un sondaggio di RealClearPolitics riportato dal Financial Times, assegna a Biden 23 punti percentuali di vantaggio sull’attuale presidente). Quindi Netanyahu si trova di fronte al classico bivio: o accelera sul piano, lisciando il pelo alla destra e ai coloni, sperando di portarlo a termine entro novembre, data delle elezioni americane, esponendo però Israele a tutti i rischi elencati fin qui. Oppure rallenta (dichiarando lo “stato d’emergenza” per il brusco aumento dei contagi). Oppure frena, accettando la brutta figura internazionale come il minore dei mali. Oppure qualcuno lo costringerà a frenare. Qualcuno che magari gli sussurrerà all’orecchio: che senso ha rischiare tutto ciò per l’annessione di un territorio su cui Israele ha già il pieno controllo? Bibi Netanyahu non è un personaggio facile da spaventare. Ma questa volta, forse per la prima volta nella sua interminabile carriera, ha capito che attorno non ha più alleati di peso. La strada dove s’è infilato, a braccetto con Trump, non ha via d’uscita.