Le proteste contro Benjamin Netanyahu. Foto: Reuters
Ormai anche l’opinione pubblica israeliana ha compreso che il perno della questione è sempre lui: Benjamin Netanyahu. Lui che da sei mesi, dopo lo sconvolgente attacco di Hamas del 7 ottobre (1.200 civili morti, circa 250 presi in ostaggio, 134 dei quali ancora prigionieri) è a capo del gabinetto di guerra; lui che, per convinzione o per opportunismo, manda all’aria qualsiasi ipotesi di mediazione, spalleggiato (o ricattato) dai suoi complici di governo, gli estremisti di destra che continuano a soffiare sulle braci del conflitto; lui che si oppone strenuamente, ciecamente a una qualsiasi forma di tregua quantomeno per ragioni umanitarie, vista la carneficina tuttora in corso in quell’abisso di morte e di dolore della striscia di Gaza; lui che liquida con un’alzata di spalle lo strike missilistico che lunedì scorso, 1 aprile, ha ucciso 7 operatori umanitari della ong americana World Central Kitchen («Siamo in guerra, può succedere»), quasi a giustificare un esercito che non si fa scrupoli ad abbattere qualsiasi cosa si muova a Gaza, confondendo nemici e vittime innocenti come nulla fosse. «Questo è un attacco diretto alle organizzazioni umanitarie che si presentano nelle situazioni più terribili in cui il cibo viene utilizzato come arma di guerra», ha commentato Erin Gore, amministratore delegato di World Central Kitchen. L’evento ha fatto “infuriare” la Casa Bianca. Netanyahu comunque avanza imperterrito, non solo insistendo sull’opportunità di sferrare un attacco di terra su Rafah, nel sud della Striscia, ultimo rifugio per circa 1,4 milioni di sfollati palestinesi (la Casa Bianca è fermamente contraria), ma allargando di proposito il fronte del conflitto mediorientale, ad esempio bombardando l’ambasciata iraniana a Damasco, in Siria. Avanza nonostante il progressivo isolamento internazionale, le unanimi condanne, nonostante il gelo del suo indispensabile alleato, quegli Stati Uniti che pochi giorni fa si sono “astenuti”, senza opporsi come avevano sempre fatto finora, di fronte alla risoluzione 2728 del Consiglio di sicurezza dell’ONU, che chiedeva un “cessate il fuoco immediato”. Ma Netanyahu, che pure si è mostrato “offeso” dalla mossa della Casa Bianca annullando una visita a Washington di due dei suoi ministri, ora deve guardarsi da un’altra minaccia, questa volta interna. Da quelle oltre centomila persone che il 31 marzo sono scese in piazza a Gerusalemme per protestare contro il governo israeliano che da sei mesi ripete la solita litania: distruggeremo Hamas e riporteremo a casa tutti gli ostaggi. Nessuno dei due obiettivi è stato raggiunto, al prezzo di oltre 33mila vittime palestinesi, la stragrande maggioranza delle quali civili, mentre l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli aiuti umanitari (Ocha-Opt) ha appena accertato che almeno 31 persone (27 bambini) a Gaza sono morti di stenti, per “malnutrizione e disidratazione”. E la Corte di Giustizia Internazionale ha nuovamente chiesto alle autorità israeliane di “aumentare la capacità e il numero dei valichi terrestri e mantenerli aperti per tutto il tempo necessario, per consentire l’ingresso di cibo, acqua, elettricità, combustibile, riparo, abbigliamento, igiene e servizi igienici, oltre a forniture e assistenza medica ai palestinesi di tutta Gaza”. Ma le parole, gli appelli internazionali, così come le risoluzioni, continuano puntualmente a cadere nel vuoto.
Netanyahu avanza imperterrito, trovando perfino il tempo per “spegnere” la voce dell’emittente qatariota Al Jazeera (“è una minaccia per la sicurezza nazionale”), perché non ha alternative: se dovesse “cedere” agli innumerevoli appelli internazionali perderebbe il sostegno degli estremisti di destra che mai come ora si erano trovati nelle condizioni di poter condizionare a tal punto le mosse dell’esecutivo (su tutti Itamar Ben-Gvir, leader di Otzma Yehudit, e Bezalel Smotrich, Partito Sionista Religioso, attuale ministro delle Finanze, che ha più volte negato l’esistenza stessa del popolo palestinese). Perciò il premier li asseconda: per non far cadere il governo. Di un suo autonomo “passo indietro” nemmeno a parlarne: perché è rincorso da quattro distinti procedimenti giudiziari. E senza lo “scudo” del ruolo di primo ministro, finirebbe dritto in carcere. Per non parlare della “responsabilità politica” di quel che è accaduto il 7 ottobre, di cui prima o dopo sarà chiamato a dar conto. Come sintetizza il quotidiano israeliano Haaretz in un editoriale pubblicato pochi giorni fa: «Il nervosismo di Netanyahu rivela qual è la sua vera priorità: la sopravvivenza politica, ad ogni costo».
La “grana” degli ultra-ortodossi esentati dalla leva
Così il primo ministro israeliano va avanti, permettendosi perfino d’ignorare le critiche sempre più esplicite degli Stati Uniti, nonostante Israele dipenda militarmente dagli aiuti americani (lo stanziamento, approvato fino al 2028, è di circa 4 miliardi di dollari l’anno, qui un report dettagliato), per non parlare dell’ombrello diplomatico finora garantito dagli Usa. Ma ora Netanyahu sta comunque rischiando grosso per quel che riguarda la stabilità del governo che presiede. L’ultima questione che deve sbrogliare (e finora non c’è riuscito) riguarda l’esenzione dal servizio militare per gli ultra-ortodossi Haredi, i circa 66mila giovani che seguono studi rabbinici. La legge che esenta questi studenti dalla leva fin dalla fondazione dello Stato ebraico, nel 1948, è scaduta da tempo, e la Corte Suprema ha stabilito che, in assenza di un nuovo testo, gli studenti dellayeshivah potrebbero lasciare le loro scritture per prendere le armi. Il governo ha tempo fino alla fine di aprile per trovare una soluzione. Interpellata da The Forward, il quotidiano in lingua yiddish della comunità ebraica americana, Shlomit Ravitzky Tur-Paz, cofondatrice del Centro di Difesa della Vita Ebraica, ha spiegato perché considera questa vicenda “come un terremoto”: «Gli israeliani sono sempre più contrari all’esenzione, soprattutto durante questa guerra, perché i soldati stanno pagando un prezzo in termine di vite, di feriti. L’esercito ha bisogno di più soldati che combattano (600 i caduti israeliani dall’inizio della guerra, 253 dall’avvio dell’operazione a Gaza, fonte IDF, ndr) e ha emesso un ordine di reclutamento di emergenza che estende la quantità di tempo in cui i soldati arruolati e i soldati di riserva sono tenuti a prestare servizio. Ma non credo che la coalizione di Netanyahu riuscirà a raggiungere un accordo entro il 30 aprile. I partiti ultraortodossi dicono “no” a tutto. E i leader Haredi stanno ascoltando i rabbini. Quindi c’è bisogno che i rabbini dicano che va bene, ma probabilmente ci vorrà più di un mese. Mi aspetto che qualsiasi cosa riescano a concordare politicamente entro il 30 aprile sarà troppo superficiale e non gradita alla Corte Suprema. A quel punto la Corte potrebbe concedere al governo una proroga: altrimenti il governo cadrà». E con lui, Netanyahu.
Sembra una questione marginale, un dettaglio irrisorio di fronte all’ecatombe di morti, di distruzione e di disperazione che sta lasciando attoniti ovunque, nel mondo. Ma politicamente non lo è. Ed è perciò che quelle enormi proteste contro l’azione del governo in carica (sotto la sede del Parlamento, anche di fronte all’abitazione del premier) potrebbero rappresentare qualcosa in più di un semplice “fastidio” per Benjamin Netanyahu, nonostante il personaggio sia abituato a trarsi d’impaccio da situazioni che apparivano disperate e senza via d’uscita. Il segno di un principio di “scollatura” con il suo elettorato, che fino a qui l’ha sempre sostanzialmente difeso (e puntualmente votato). Interessante al proposito l’analisi offerta dalla rivista americana Foreign Policy che mette in guardia dal troppo “personalizzare” le accuse alla politica di Tel Aviv. «La guerra a Gaza non è la guerra di Netanyahu, è la guerra di Israele. E il problema non è solo Netanyahu: è l'elettorato israeliano. Incolpare Netanyahu - che si rifiuta di lasciare la vita politica israeliana nonostante sia sotto processo per corruzione e abbia presieduto il paese durante la peggiore catastrofe della sua storia - ha eclissato il fatto che quando si tratta delle politiche israeliane su Gaza in particolare, e sui palestinesi in generale, molti israeliani sono ampiamente allineati con Netanyahu. Con un ampio margine di consenso sostengono l’attuale campagna militare a Gaza e l’obiettivo del governo di distruggere Hamas, qualunque sia il costo umano per i palestinesi nella Striscia di Gaza. Una grande maggioranza, l’88%, degli ebrei israeliani intervistati a gennaio riteneva che l’incredibile numero di morti palestinesi, che all’epoca aveva superato i 25.000, fosse giustificato. Una grande maggioranza dell’opinione pubblica ebraica pensa anche che le Forze di Difesa Israeliane (IDF) stiano usando una forza adeguata o addirittura troppo poca a Gaza. Formulata nell’idea che Hamas ha imposto questa “guerra senza scelta” a Israele e al popolo di Gaza e che Hamas deve essere distrutto per una questione di sopravvivenza israeliana, anche la minaccia di un’imminente carestia a Gaza non ha provocato opposizione alla campagna. Inoltre, in un sondaggio dello scorso febbraio dell’Israel Democracy Institute, circa due terzi degli intervistati ebrei (63%) hanno dichiarato di opporsi alla proposta di Israele di accettare in linea di principio la creazione di uno stato palestinese indipendente e smilitarizzato».
La promessa mancata sulla liberazione degli ostaggi
E allora le manifestazioni? Da dove nascono? «Le migliaia di israeliani che ancora una volta scendono in piazza non stanno protestando contro la guerra», prosegue Foreign Policy. «Fatta eccezione per una piccola manciata di israeliani, ebrei e palestinesi, non chiedono un cessate il fuoco o la fine della guerra, o la pace. Non stanno protestando contro l’uccisione da parte di Israele di un numero senza precedenti di palestinesi a Gaza o contro le restrizioni agli aiuti umanitari che hanno portato alla fame di massa (e alcuni israeliani di destra si spingono anche oltre, bloccando attivamente l’ingresso degli aiuti nella Striscia). Certamente non invocano la necessità di porre fine all’occupazione militare, giunta ormai al suo 57° anno. Stanno protestando principalmente contro il rifiuto di Netanyahu di dimettersi e contro quella che vedono come la sua riluttanza a siglare un accordo sugli ostaggi».
Eppure nel mirino, a 6 mesi dal massacro del 7 ottobre, resta sempre lui, sempre più lui. Come scrive il quotidiano conservatore, di centrodestra, Jerusalem Post: «Israele sta affrontando una guerra su più fronti, l’odio internazionale e i disordini interni, una feroce iper-partigianeria, l’evasione di massa della leva da parte degli haredim in mezzo a una carenza di soldati. Ma l’enorme, sempre crescente, deficit di credibilità di Benjamin Netanyahu amplifica ogni crisi. Mr. Security è diventato Mr. Insecurity. L'affarista dietro le quinte non riesce nemmeno a concludere accordi facili con i partiti Haredi per iniziare almeno a proteggere i propri. Un leader sprezzante, divisivo, difensivo e offensivo. Non offre alcuna leadership pubblica, nessuna visione costruttiva. Netanyahu dovrebbe specificare una data futura per le elezioni e una data per il pensionamento. Ancora meglio, dovrebbe dimettersi, designando un Likudnik (esponente del Likud) meno polarizzante che potrebbe combattere la guerra in modo altrettanto aggressivo senza inimicarsi così tante persone qui e all’estero». Israele teme un isolamento che mai ha provato dalla sua fondazione. E probabilmente ha capito che il “fattore N”, in qualche modo, deve essere rimosso.
Ma la manovra di “accerchiamento” è già iniziata: proprio ieri, 3 aprile, il leader centrista Benny Gantz, che secondo i sondaggi potrebbe concretamente ambire alla successione, ha chiesto elezioni anticipate a settembre, incassando l’appoggio del leader del Senato degli Stati Uniti, il democratico Chuck Schumer.