SOCIETÀ

La Liberia e la voglia di pace e di democrazia

Bisognerà attendere ancora qualche giorno, e probabilmente attraversare un ulteriore voto di ballottaggio, per conoscere il nome del prossimo presidente della Liberia, frammento d’Africa occidentale affacciato sull’Atlantico. Ma quel che è certo è che i liberiani, dopo aver conosciuto nel loro recente passato la violenza imposta dai governi militari e aver affrontato, tra il 1980 e il 2003, pagine drammatiche di guerra civile (si calcola siano state 250mila le vittime), oggi vogliono la pace, la democrazia. La difendono con determinazione da due decenni. In occasione delle presidenziali del 10 ottobre scorso hanno perfino chiuso le frontiere per impedire che eventuali ingressi di stranieri potessero in qualsiasi modo condizionare, manipolare o compromettere l’esito delle elezioni. Per ribadire l’importanza di un voto “non contaminato”: «Vogliamo che il nostro popolo sappia che i confini sono sicuri», ha dichiarato alla vigilia del voto Danny B. Sartee, direttore delle operazioni del Liberia Immigration Service (LIS). «Abbiamo uomini alle frontiere, in pattuglia congiunta con le nostre controparti dei paesi vicini: Sierra Leone, Guinea, Costa d'Avorio. C’è stato in passato (come nelle elezioni del Senato nel 2020) un consistente afflusso di stranieri, di persone che sono entrate nel nostro paese per condizionare il processo elettorale: e abbiamo lavorato assiduamente per evitarlo. In ogni nazione democratica, elezioni libere ed eque sono vitali per mantenere l’integrità del sistema politico: la chiusura delle frontiere durante questo periodo critico funge da ulteriore livello di sicurezza per salvaguardare il processo elettorale». Non è un dettaglio da poco, in un continente lacerato dall’instabilità, dalla corruzione, dall’estrema povertà e dai sempre più frequenti colpi di stato. Ed è la prima volta che le elezioni in Liberia sono condotte in assoluta autonomia, senza la presenza di una missione delle Nazioni Unite per garantire la sicurezza. Non sono stati segnalati incidenti di rilievo e il voto si è svolto sostanzialmente ordinato, secondo quanto riferito da un team di osservatori della Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale. Anche se non sono mancati gli imprevisti. Le recenti inondazioni nelle contee di Sinoe e Rivercess hanno obbligato la commissione elettorale a usare canoe per trasportare le schede elettorali: alcune di queste si sono capovolte, il materiale è andato disperso.

L’economia “repressa” e l’esempio di Ma Ellen

Venti candidati, ma diciotto sono “di contorno” per così dire: la vera sfida è a due. Tra il presidente uscente, quel George Weah che molti conoscono e ricordano per le sue passate gesta sui campi di calcio (anche con la maglia del Milan, oltre che del Paris Saint Germain e del Manchester City), unico africano ad aver mai vinto il Pallone d’Oro (nel 1995), oggi leader della coalizione populista Coalition for Democratic Change (CDC). E Joseph Boakai, 78 anni, dell’Unity Party (UP) Partito dell’Unità, di centrodestra, che per dodici anni (dal 2006 al 2018) ha ricoperto il ruolo di vicepresidente, quando a governare c’era Ellen Johnson Sirleaf, da tutti chiamata “Ma Ellen” (mamma Ellen), prima donna in Africa a diventare capo di stato, vincitrice di un premio Nobel per la pace nel 2011, e prima leader democraticamente eletta in Liberia a fare semplicemente un passo indietro alla scadenza del suo mandato: cedendo il potere senza combattere o senza tentare di modificare a proprio vantaggio la Costituzione, che prevede un massimo di due mandati presidenziali. Una stabilità democratica che si spera possa migliorare il ranking della Liberia anche da un punto di vista economico: l’Index of Economic Freedom colloca il paese africano al 150° posto, su 162, ponendola nella categoria delle “economie represse”.

Il presidente Weah cerca la riconferma: «Durante il nostro primo mandato, abbiamo gettato le basi per la pace, la libertà di espressione, la stabilità macroeconomica e il ripristino della fiducia nel sistema educativo nazionale. Posso garantire che gli anni 2024 e oltre saranno migliori per tutti i liberiani». Le promesse costano poco, il problema è mantenerle. Perché anche la precedente tornata elettorale, nel 2017, era piena di buoni propositi: elimineremo la corruzione, rafforzeremo l’economia, creeremo posti di lavoro, miglioreremo le infrastrutture. E ora il presidente si trova ora a fare i conti con gli impegni non realizzati, almeno non completamente. Un mandato con luci e ombre. Tra le “luci” c’è sicuramente l’istruzione, l’aver garantito lezioni gratuite agli studenti nelle università pubbliche, ma anche l’aumento delle aree coperte dall’elettricità, peraltro a un prezzo calmierato, e l’avvio di numerosi progetti di costruzione di strade in tutto il paese. Tra le “ombre” resta la corruzione (endemica, difficilmente estirpabile) e l’estrema povertà. I dati non sono recentissimi, ma il tasso di povertà supera stabilmente il 50%: vale a dire che oltre la metà dei 5 milioni di abitanti della Liberia vive in condizioni estremamente disagiate, con oltre il 99% della popolazione con un guadagno inferiore ai 10 dollari al giorno (fonte World Population Review). E in Liberia è in vigore un sistema di doppia valuta (dollaro liberiano e dollaro statunitense, a testimonianza dei fortissimi legami storici che la legano a Washington). Peraltro Weah, che è cresciuto in una delle baraccopoli più povere e violente di Monrovia, la capitale liberiana, e che aveva anche garantito l’Istituzione di una Commissione anticorruzione, non ha saputo reagire in maniera adeguata all’imbarazzante accusa da parte del Dipartimento di Stato americano, proprio per corruzione, di tre funzionari liberiani, tra i quali Nathaniel McGill, capo dello staff del presidente. Che li ha “licenziati” dalle loro funzioni (gli altri due sono un magistrato e l’amministratore delegato dell’Autorità Portuale) ma non messi sotto indagine giudiziaria. «Attraverso la loro corruzione questi funzionari hanno minato la democrazia in Liberia a proprio vantaggio personale», aveva spiegato Brian Nelson, sottosegretario al Tesoro per il terrorismo e l’intelligence finanziaria negli Stati Uniti. L’attuale presidente si è detto anche contrario all’istituzione di un “tribunale economico per crimini di guerra”, in grado di accertare responsabilità per reati commessi durante gli anni della guerra civile: «Guardare indietro ai vecchi crimini non è il modo migliore per raggiungere lo sviluppo», ha sostenuto Weah. Ma è assai improbabile che un simile tribunale possa essere formato a breve: entrambi i contendentialla futura presidenza sostengono, nella contea di Nimba, due ex “signori della guerra”.

Del resto in Liberia, una nazione che ha appena compiuto i duecento anni di vita (nel 1822 divenne la patria degli schiavi americani liberati, sotto il controllo dell’American Colonization Society: qui la storia), il consenso passa anche attraverso fattori particolari. Come spiega un recente sondaggio condotto da GeoPoll: «Gli elettori liberiani valutano le qualità di leadership dei candidati (92%), l’esperienza (72%), le politiche proposte (66%), mentre c’è chi si affida ancora all’appartenenza a una determinata tribù (14%)». Il sondaggio restituisce anche percentuali che aiutano a fotografare l’attuale situazione della Liberia: due intervistati su tre esprimono livelli di fiducia nelle “capacità di governo” da bassi a molto bassi. Una netta maggioranza (78%) indica la corruzione come problema prevalente all’interno del governo e delle istituzioni pubbliche. Il 92% ha difficoltà a trovare un lavoro stabile. Mentre l’85% degli intervistati ritiene che sia necessaria una maggiore rappresentanza delle donne nei ruoli politici, compresa la leadership. Una delle più recenti “urgenze” sulle quali si giocherà l’elezione del futuro presidente è la droga, la tossicodipendenza che secondo la UNODC (il Fondo delle Nazioni Unite per il controllo della droga) colpisce due giovani su 10. Nell’ottobre 2022, le forze di sicurezza hanno intercettato un carico di 520 kg di cocaina (valore stimato oltre 100 milioni di dollari).

Boakai in testa, ma si profila un ballottaggio

Questo per dire che la rielezione di George Weah è tutt’altro che scontata. Al momento in vantaggio c’è il suo sfidante, Joseph Boakai, 78 anni, già sconfitto da Weah nel 2017 e probabilmente, per questioni anagrafiche, al suo ultimo tentativo di salire alla presidenza, che in campagna elettorale ha lanciato la sua “rescue mission”, la sua “missione di salvataggio” per la Liberia. Lo spoglio dei voti procede a rilento. Ma secondo l’ultimo documento pubblicato dalla National Election Commission, relativo a poco più del 6% dei seggi totali, Boakai è in testa con il 46% delle preferenze finora conteggiate, contro il 39% di Weah. Scenario che gli analisti avevano previsto. L’agricoltura è il tema chiave del candidato di centrodestra: vuole aumentare la produzione nazionale di riso e creare tre nuovi centri nel paese per la produzione autonoma di macchine agricole. Ha anche promesso di pavimentare le autostrade che collegano la Liberia alle nazioni confinanti per migliorare il commercio transfrontaliero. E si è esplicitamente esposto nel dichiarare guerra ai trafficanti di droga. «La proliferazione degli stupefacenti in tutto il paese è una minaccia di emergenza per la sicurezza nazionale», ha ribadito Boakai, che non ha esitato a instillare un dubbio: «È evidente il fallimento della leadership nazionale, con un sistema di giustizia debole che solleva in modo cruciale sospetti sulla probabile complicità di alcuni alti livelli nell’affare della droga». «I liberiani vogliono un cambiamento», ha assicurato ancora Boakai, alla vigilia del voto. «I giovani per strada mi stanno dicendo che hanno fatto un errore nel 2017 e vogliono correggere l'errore. Ovunque io vada, mi dicono: “perdonaci, abbiamo fatto un errore”». Boakai è molto popolare nella regione centro-settentrionale, mentre la roccaforte dell’attuale presidente è nella regione sud-orientale, che però è meno popolata. Tutto si gioca sul consenso nelle altre contee, a partire da quella di Montserrado, sulla costa nord-occidentale, con quasi un milione di elettori (il 60% dei liberiani ha meno di 25 anni, gli elettori iscritti sono circa 2,4 milioni).

La National Election Commission è tenuta, per legge, ha pubblicare l’esito delle elezioni entro due settimane dal voto (quindi entro il prossimo 24 ottobre). Se nessuno dei candidati supera il 50% delle preferenze, i primi due si sfideranno al ballottaggio, il prossimo 7 novembre. Oltre al presidente, gli elettori scelgono anche i membri della camera bassa, 73 seggi, e metà dei 30 membri del Senato. Il presidente Weah ha già dichiarato che accetterà comunque il risultato delle elezioni. Jefferson Koijee, segretario generale della Coalition for Democratic Change, ha commentato così davanti ai giornalisti locali: «Quest'uomo ha detto molte volte che la pace di questo paese è al di sopra della sua».

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