SCIENZA E RICERCA

La malaria negli umani, una zoonosi recente

Un altro rebus evolutivo sembra essere stato risolto. Dandone notizia in un articolo pubblicato su Nature Communications, un gruppo di ricercatori dell’università di Edimburgo, in collaborazione con colleghi dell’università della Pennsylvania e di altri centri di ricerca, ha infatti sciolto l’enigma che circondava l’origine evolutiva di Plasmodium malariae, una delle quattro specie di parassiti che causano la malaria nell’uomo. A differenza di P. falciparum e P. vivax, le cui traiettorie evolutive – anche per via della loro maggiore virulenza e diffusione nell’uomo – sono state accuratamente approfondite, l’origine biologica di Plasmodium malariae, il protista che causa la febbre quartana, è rimasta a lungo ignota.

Nei primi anni del Ventesimo secolo, a seguito di osservazioni unicamente morfologiche (le moderne tecniche di analisi genetica erano ancora di là da venire), si era ipotizzato che P. malariae fosse strettamente imparentato – addirittura, secondo alcuni, una variante della stessa specie – con P. rodhaini, plasmodio endemico negli scimpanzé. Le due forme, infatti, non sono specie-specifiche, ma entrambe possono insediarsi sia negli umani che nei loro ‘cugini’ primati, come venne dimostrato da diversi esperimenti. Di recente, tuttavia, l’indagine genetica di questi ceppi non umani strettamente correlati a P. malariae ha evidenziato l’esistenza di diversi lignaggi, simili ma non assimilabili ad un’unica specie. L’obiettivo principale della ricerca è ripercorrere la storia evolutiva e comprendere le relazioni filogenetiche tra queste diverse forme di Plasmodium, così da far luce sulla sua origine e sulle potenziali future traiettorie evolutive interspecifiche.

Famiglia allargata

Da analisi del DNA mitocondriale e dell’intero genoma degli esemplari di Plasmodium estratti da diversi campioni ematici e fecali di scimpanzé, bonobo e gorilla selvatici e in cattività sono emersi tre lignaggi principali imparentati con Plasmodium malariae.

I tre ceppi sono stati identificati in relazione al grado di vicinanza genetica da P. malariae:

  • il ceppo M1 comprende tutti i protisti che causano la malaria nell’uomo e P. brasilianum, un parassita endemico nei platirrini o scimmie del Nuovo Mondo, un ordine di primati diffuso nella parte settentrionale e meridionale del continente americano;
  • il ceppo M2 è piuttosto distante, dal punto di vista genetico, da P. malariae, ma più strettamente correlato ad esso che ad ogni altro plasmodio della malaria;
  • all’interno di M1, è stata poi individuata un’ulteriore suddivisione, definita M1-like, che comprende campioni raccolti da primati sia cresciuti in natura sia in cattività.

La più ampia distanza genetica è stata riscontrata tra i ceppi M1 e M2 (13,5%, a fronte di una distanza dello 0,6% tra M1 e M1-like): questo suggerisce che la separazione dal ramo principale dell’albero evolutivo di P. malariae sia avvenuta in epoca piuttosto antica, e che dunque questo plasmodio possa essere considerato una specie a sé.

Un cespuglio evolutivo comune

Più difficile da dipanare è il percorso filogenetico seguito dai ceppi M1 e M1-like, la cui principale differenza è la ‘scelta’ dell’ospite da infettare (principalmente gli umani per M1, altri primati per M1-like, ma con significative eccezioni e con frequenti salti inter-specie). Comprendere la sequenza evolutiva che lega queste due forme è importante per chiarire il potenziale zoonotico di questi parassiti, cioè il tasso di probabilità che l’infezione sia diffusa da una specie all’altra.

Uno dei dati più interessanti emersi dall’analisi genetica dei due ceppi è che M1-like presenta una diversità genetica molto più alta (1,04%) rispetto a M1 (0,026%): ciò potrebbe essere indizio di una maggiore ‘anzianità’ del ceppo di plasmodio imparentato con M1 rispetto a quest’ultimo. Per di più, in M1 è stato riscontrato un numero decisamente alto di polimorfismi non sinonimi (la presenza, cioè, di diversi genotipi con mutazioni non equivalenti, che possono dunque alterare la funzionalità delle proteine sintetizzate; ciò indica l’azione ridotta, in questo ceppo, della selezione purificante), evidenza che suggerisce la possibilità che, in epoca piuttosto recente, si sia verificato un ‘collo di bottiglia’, cioè una significativa riduzione della popolazione della specie, con la conseguente conservazione di una ridotta percentuale della variabilità genetica totale.

Dal punto di vista morfologico, il plasmodio degli umani e quelli di altri primati, come gorilla e scimpanzé, sono indistinguibili: si tratta dunque di specie “criptiche”, la cui separazione può essere verificata solo attraverso la valutazione della distanza genetica. Se, in base ai dati precedenti, si era ritenuto che P. malariae (endemico negli umani) e il cosiddetto P. malariae-like fossero due specie distinte e separatesi diversi milioni di anni fa, la scoperta – compiuta dagli autori della ricerca pubblicata su Nature Communications – di un terzo ceppo di plasmodio simile a P. malariae (qui definito M1-like) suggerisce che la storia sia andata diversamente. La conclusione dei ricercatori è che P. malariae vada inserito all’interno della radiazione evolutiva dei plasmodii P. malariae-like; inoltre, i bassi livelli di variazione genetica riscontrati in P. malariae dimostrano come quest’ultimo sia emerso da una trasmissione dai primati agli umani piuttosto recente. Questo evento di spillover spiegherebbe, inoltre, l’effetto ‘collo di bottiglia’ osservato nelle analisi genetiche e il conseguente aumento di loci polimorfici non sinonimi, dovuto alla rapida espansione successiva alla repentina riduzione di variabilità genetica. Alla luce di questa caratterizzazione, sembra corretto considerare P. malariae-like come una specie a sé: i ricercatori propongono, dunque, di rinonimarla Plasmodium praemalariae, così da sottolinearne l’importanza nell’emersione del parassita che infetta la specie umana.

Zoonosi e antroponosi

Aver svelato la recente origine africana di P. malariae permette di chiarire anche la storia evolutiva di P. brasilianum, il plasmodio ad esso strettamente imparentato e diffuso fra le scimmie del Nuovo Mondo. Per quanto riguarda questa parentela, infatti, per lungo tempo non vi è stato consenso scientifico sulla direzione del salto di specie – se dalle scimmie all’uomo, o viceversa. Le nuove evidenze pongono fine anche a questo dibattito: risulta evidente, infatti, come P. brasilianum sia figlio dell’importazione nelle Americhe di P. malariae da parte dell’uomo non prima di 500 anni fa, in perfetta corrispondenza con la colonizzazione del “Nuovo Mondo”. Si tratta, dunque, di un chiaro caso di antroponosi: una malattia che viene trasmessa dall’uomo ad altri animali.

Infine, l’ultimo dei tre ceppi individuati dalle analisi dei campioni presi in considerazione, il più lontano, dal punto di vista filogenetico, da P. malariae, rappresenta – affermano i ricercatori – una specie nuova, mai osservata prima d’ora, nominata, in virtù di questa lunga latitanza, Plasmodium celatum. La sua presenza è stata riscontrata in popolazioni di scimpanzé, gorilla e bonobo; grazie a questa bassa specificità tra i primati, la sua distribuzione geografica è piuttosto vasta; finora non sono stati riscontrati casi di infezione in esseri umani.

In conclusione, tutti i dati disponibili puntano nella stessa direzione: le specie correlate a P. malariae sembrano – con l’eccezione di P. brasilianum, figlio di un evento di origine antropica – essere tutte d’origine africana, con una lunga storia evolutiva comune. Così come P. falciparum, P. malariae è probabilmente l’esito di una zoonosi piuttosto recente dai primati all’uomo, avvenuta tra 5.000 e 10.000 anni fa, che potrebbe essere strettamente correlata ad eventi storici come l’evoluzione delle prime forme di agricoltura.

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