Uno dei nuovi centri di accoglienza realizzati in Grecia. Foto: Reuters
Chiusi nei container per mesi, spesso senza nemmeno una parvenza di assistenza sanitaria o di tutela legale. Perfino bambini, perfino donne in gravidanza. E, soprattutto, senza aver commesso alcun crimine, salvo che presentare una richiesta d’asilo sia nel frattempo diventato un reato, nella legislazione greca. La denuncia è contenuta nell’ultimo rapporto pubblicato dal Consiglio greco per i rifugiati (GCR) e dall’Oxfam, la confederazione internazionale di organizzazioni non profit che si occupa di povertà e di tutela dei diritti umani. Un rapporto titolato “Detention as the default: how Greece and the EU are generalising the administrative detention of migrants”, che certifica e fotografa una situazione oramai scivolata oltre il limite del tollerabile.
Sette migranti su 10 vengono posti in “detenzione amministrativa” già al momento della presentazione della domanda di asilo. E quasi la metà dei migranti che arriva in Grecia (per l’esattezza il 46%) è costretta a restare all’interno dei “centri di detenzione pre-allontanamento” per un periodo superiore ai 6 mesi. Non è più l’eccezione, ma la regola. Peraltro, con la complicità dell’Unione Europea, che sta finanziando la costruzione dei nuovi Multi-Purpose Reception & Identification Centre (MPRIC). In realtà si tratta di campi di prigionia, costruiti in zone remote, circondati da filo spinato, muniti di sistemi di videosorveglianza degni di un presidio militare, tra doppie porte, sbarre d’acciaio, cemento armato e scanner. Dove gli “ospiti” sono trattati alla stregua di detenuti, di criminali. Il primo dei 5 campi finanziati dall’Unione Europea (il contributo complessivo è di 276 milioni di euro) è stato inaugurato lo scorso settembre nell’isola di Samos (gli altri sono in costruzione a Lesbo, Kos, Leros, e Chios). Come titola Al Jazeera: Prisons in paradise.
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Sia chiaro: sempre meglio delle baraccopoli che fino a poco tempo fa sorgevano nella stessa Samos (vicino al porto di Vathy, progettata per ospitare 680 persone, ma ne ospitava dieci volte tanto) o a Lesbo, nel famigerato campo di Moria, distrutto da un incendio nel settembre dello scorso anno, appiccato dagli stessi richiedenti asilo, proprio come gesto estremo per denunciare le condizioni disumane nelle quali erano costretti a vivere. E il governo greco ci tiene a sottolineare il cambio di passo: alloggi di migliore qualità, acqua corrente, servizi igienici, aree separate per le famiglie e maggiore sicurezza. «I nuovi campi, ad accesso chiuso e controllato, restituiranno la dignità perduta alle persone in cerca di protezione internazionale, ma soddisferanno anche le necessarie condizioni di contenimento per i migranti illegali che devono essere rimpatriati», ha dichiarato Notis Mitarachi, ministro delle Migrazioni del governo greco (governo guidato da Kyriakos Mitsotakis, leader di “Nuova Democrazia”, partito conservatore, di destra, recentemente accusato di non aver preso una posizione di netta condanna di fronte ai recenti attacchi squadristi avvenuti nel Paese). Eppure l’immagine resta quella di una prigione, dove l’accesso è consentito soltanto a chi è autorizzato (non alle ong, ad esempio), dove i cancelli rimarranno chiusi di notte e chi non rientrerà prima delle 20 dovrà affrontare sanzioni disciplinari. Dove perfino i bambini di ritorno da scuola devono essere perquisiti prima di poter tornare nelle proprie baracche (prefabbricati con 5 letti). Dove l’intera struttura è controllata 24 ore su 24 dalla società di sicurezza privata “G4S”, una multinazionale britannica che fin dal 2014 ha ottenuto l’incarico di sorveglianza dei centri di detenzione dei migranti in Grecia.
«Questo centro, situato in un luogo completamente sperduto di Samos, chiamato Zervou, viene venduto come un miglioramento, ma in realtà è un incubo distopico, con milioni spesi in sistemi di sorveglianza e recinzioni di filo spinato di livello militare», denunciava pochi mesi fa Patrick Wieland, coordinatore sul campo di Medici Senza Frontiere a Samos. «Forse il filo spinato è lucido, ma questo non può essere venduto come un miglioramento. Questa è l’illustrazione perfetta di quanto sia criminale la politica dell’UE sulla migrazione: trattenere e detenere persone che fuggono dalla violenza e punirle perché vogliono essere al sicuro. È una vergogna».
Il varco dell’Egeo
La Grecia è uno dei principali punti d’ingresso dell'Unione Europea per i migranti, in fuga da guerre, persecuzioni e carestie (soprattutto dall’Afghanistan e dalla Siria). Il passaggio obbligato per i richiedenti asilo è la Turchia, una frontiera che dista soltanto pochi chilometri dalle isole più orientali greche, come Kos. Poche miglia, ma c’è il mare di mezzo (l’Egeo), con tutti i pericoli che la traversata comporta. Nel 2016 la Turchia aveva siglato un accordo con l’Unione Europea promettendo di ridurre l’immigrazione irregolare verso la Grecia (in cambio di denaro: 6 miliardi di euro, ufficialmente per garantire un’accoglienza dignitosa a milioni di rifugiati siriani sul territorio turco). Poi nel 2020 una nuova crisi, con il presidente turco Erdogan che dichiarava di “non essere più disponibile a mantenere la chiusura delle frontiere con l’Europa” vista la pressione dei rifugiati siriani. Salvo poi “accettare” (a luglio dello scorso anno) un rifinanziamento di 485 milioni di euro dall’Unione Europea. Migranti usati come bancomat, o come “arma di pressione politica” (come sta accadendo in questi giorni in Bielorussia). Al punto che la Grecia ha più volte accusato la Turchia non soltanto di “non aver fatto abbastanza per arginare il fenomeno”, ma puntando anche il dito contro la Guardia Costiera turca, per aver volontariamente “spinto” imbarcazioni di profughi verso le acque greche (qui un video). La Turchia, di contro, accusa la Grecia di aver respinto illegalmente i migranti, tentando di rimandarli indietro senza aver loro concesso la possibilità di chiedere asilo. Un braccio di ferro che va avanti da anni, con diversi gradi d’intensità (e quello attuale non è altissimo: da gennaio a novembre 2021 sono 3302 le persone arrivate in Grecia dalla Turchia, attraversando il Mar Egeo). Ma resta il dato che dal 2016 a oggi il meccanismo dei rimpatri, concordato all’epoca con l’Unione Europea, resta inceppato: in 5 anni Ankara ha accettato il ritorno in Turchia di appena 2140 migranti irregolari. Oggi sono quasi tremila i migranti in “detenzione amministrativa” perché privi dei documenti necessari per restare in Grecia. Nel 2016 erano quasi 15mila, nel 2019 oltre 30mila.
L’intento del governo greco è evidente: «La nostra priorità assoluta è un’efficace protezione delle frontiere», continua a ripetere il ministro della Migrazione, Mitarakis, che ancora a luglio, durante un’audizione in Parlamento, dichiarava con un certo orgoglioche gli sbarchi nelle isole dell’Egeo orientale erano diminuiti del 96% in un anno. Qualche numero: ad agosto 2020, nelle isole greche, le persone ospitate nelle strutture di accoglienza erano oltre 27mila, mentre nell’agosto di quest’anno erano poco più di 5mila (nella Grecia continentale il numero dei migranti è passato da 82mila a 42mila). Una diminuzione drastica, raggiunta anche grazie all’attuazione di metodi spietati, con le continue accuse per i disumani respingimenti. E per i quattro, lunghissimi giorni lasciati trascorrere in mare, alla fine di ottobre, alla nave mercantile con 375 migranti a bordo (quasi tutti afghani, alcuni dei quali affamati e disidratati), prima di concedere loro la possibilità di attraccare a Kos.
Né avanti né indietro: da profughi a prigionieri
Anche loro finiti nel “limbo” della permanenza in territorio greco, senza alcuna possibilità di andare avanti (verso altri paesi dell’Unione Europea) o indietro (in Turchia, ma soltanto in teoria, la pratica dice altro). Il 7 giugno 2021 il governo greco (sulla base dell’accordo UE-Turchia del 2016) ha dichiarato la Turchia “paese terzo sicuro” per i richiedenti asilo provenienti da Siria, Afghanistan, Pakistan, Bangladesh e Somalia. “Paese sicuro” vuol dire che lì non sono in pericolo. E che dunque non hanno alcun motivo di presentare domanda di asilo. Per dire: nel 2020 su oltre 40mila domande di asilo presentate, 2 su 3 erano di profughi provenienti da quei paesi. E dunque respinte, senza nemmeno esaminarle nel dettaglio, perché dichiarate “inammissibili”. Peccato però che la Turchia abbia bloccato tutti i rimpatri da marzo 2020 (causa Covid), e non mostra alcuna intenzione di rimuovere il blocco. Così i profughi restano detenuti in Grecia, senza un futuro né un passato, senza una prospettiva.
Il problema, ulteriore, è che sarà sempre più difficile poter raccontare cosa accade davvero nei centri per profughi reclusi. Quali privazioni, quali soprusi, le violenze, i silenzi, le vendette, le minacce. Vasilis Papastergiou, esperto legale presso il Consiglio greco per i rifugiati, la spiega così: «La detenzione amministrativa è solo un altro strumento per impedire alle persone di cercare sicurezza in Europa. Mentre le autorità greche si rifiutano di considerare altre opzioni di detenzione meno severe, come i frequenti check-in, i tribunali greci spesso rifiutano i ricorsi contro la detenzione». Oxfam, peraltro, ricorda che «la Corte europea dei diritti dell'uomo ha stabilito in due casi distinti (nel 2018 e nel 2019) che la detenzione prolungata nelle stazioni di polizia viola il divieto di tortura di cui all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, osservando che "le stazioni di polizia sono luoghi progettati per ospitare persone solo per un breve periodo”. Nonostante ciò, le autorità greche continuano questa pratica inaccettabile».
E come se non bastasse, il governo greco ha deciso di prendere di mira gli operatori umanitari e i volontari delle ong che aiutano i migranti, arrestandone una ventina e accusandoli di spionaggio, riciclaggio di denaro e traffico di esseri umani (rischiano condanne per oltre 25 anni di carcere). Per 24 di loro, tra i quali l’operatrice siriana per i diritti umani Sara Mardini, lei stessa rifugiata, e il volontario irlandese Sean Binder (tenuto per oltre tre mesi in carcere), si è tenuta giovedì scorso il processo presso il Tribunale di Lesbo. Processo aperto e subito chiuso, poiché i giudici locali si sono dichiarati “non competenti” a giudicare il caso. Gli imputati sono stati rilasciati (senza restrizioni) in attesa che venga programmato un nuovo processo, di fronte a un’altra corte. Secondo Human Rights Watch «le accuse travisano in modo perverso le operazioni di ricerca e salvataggio, descrivendo il gruppo come una rete criminale di contrabbando». Gli accusati negano ogni responsabilità: «Volevamo soltanto salvare vite umane». Ma l’umanità, evidentemente, non abita più qui.