SCIENZA E RICERCA
Morte improvvisa giovanile. I risultati della ricerca condotta tra Padova e Vancouver
Viene anche definita “morte improvvisa dell'atleta” quella che colpisce ogni anno circa 2 su 100mila persone entro i 35 anni di età e sembra verificarsi più frequentemente in chi svolge attività fisica agonistica. La causa principale di questi eventi è una malattia genetica, la cardiomiopatia aritmogena, che purtroppo non è sempre facile individuare.
Un recente studio, frutto di una proficua collaborazione tra l'università di Padova e la British Columbia university di Vancouver, ha permesso di individuare delle cellule specifiche coinvolte nello sviluppo della patologia. Al lavoro di ricerca, i cui risultati si trovano nella pubblicazione Pathogenic Potential of Hic1-Expressing Cardiac Stromal Progenitors sulla rivista americana Cell Stem Cell, hanno partecipato le professoresse Alessandra Rampazzo e Paola Braghetta, dei dipartimenti di biologia e biologia molecolare dell'università di Padova.
“La morte improvvisa giovanile è un evento che per fortuna colpisce abbastanza raramente”, ci spiega la professoressa Rampazzo. “Ci possono essere, per quanto riguarda la parte cardiaca, diverse cause, ma quella principale è la cardiomiopatia aritmogena, una malattia genetica la cui incidenza nella popolazione è di circa 1 su 5000 persone, e che stiamo studiando da molti anni in collaborazione con la Clinica cardiologica e l'Unità di anatomia patologica di Padova”.
Come spiega la professoressa, questi casi di morte improvvisa interessano frequentemente i giovani atleti. “Il cuore di chi svolge attività sportiva agonistica viene sottoposto a uno sforzo maggiore che va ad aggravare la progressione della malattia in chi ha questo difetto genetico”.
Nella maggior parte dei casi, vengono manifestati dei sintomi come l'aritmia ventricolare, la tachicardia o sincopi. Sono questi i segnali d'allarme ed è per questo che nella maggior parte dei casi viene fatta la diagnosi e viene poi estesa l'indagine a tutti i membri della famiglia, visto che si tratta di una malattia genetica. In alcune persone, però, questi segni non sono così evidenti, per cui non viene quindi fatta una diagnosi clinica e il primo segno evidente, purtroppo, è la morte improvvisa”.
La diagnosi clinica, insomma non è sempre facile, anche perché, come precisa la professoressa Braghetta, “i giovani, a meno che non abbiano condizioni particolari di salute, raramente vengono sottoposti a indagini cardiache. Per fortuna, grazie all'obbligatorietà della presentazione del certificato medico per l'attività sportiva anche non agonistica, che prevede un elettrocardiogramma, è possibile individuare meglio le persone che potenzialmente potrebbero avere questa patologia, tanto è vero che da quando la prassi è stata resa obbligatoria, il numero di eventi in atleti è diminuito moltissimo rispetto alla popolazione totale, proprio perché vengono controllati meglio e più frequentemente”.
Ma a cosa è dovuto, più precisamente, il processo che favorisce lo sviluppo di aritmie cardiache, e che può provocare l'arresto cardiaco?
Come spiega la professoressa Rampazzo, “le cellule del miocardio di chi ha questa malattia genetica muoiono progressivamente, e vengono sostituite da tessuto fibroso e adiposo, che non conduce l'impulso elettrico”. Il meccanismo appena descritto ha il nome di differenziazione, e “per questo, nelle porzioni in cui il danno si instaura, il muscolo cardiaco viene irrigidito, e la sua contrazione è così pregiudicata”, aggiunge la professoressa Braghetta.
Nel corso degli anni, un gruppo di ricerca dell'università di Padova si era occupato di genetica ed era riuscito a identificare 7 dei geni coinvolti nella malattia (in totale, al momento, ne sono noti una quindicina) e ciò ha permesso di rivolgere poi l'indagine ai meccanismi a livello cellulare che portano alla differenziazione.
“Abbiamo sovraespresso il gene umano che presentava le mutazioni che erano state individuate, in modo tale da creare un modello animale che ripercorresse le caratteristiche citologiche e istologiche della patologia”, racconta la professoressa Braghetta. “Nei nostri animali abbiamo verificato che effettivamente la patologia si instaurava con una tempistica simile a quella umana, e che quindi erano dei buoni modelli. Il nostro lavoro è stato poi utilizzato dal gruppo di Vancouver che da molti anni si occupa di una tipologia particolare di cellule, quelle fibro-adipogeniche. I ricercatori di Vancouver, quindi, sono andati a verificare la presenza di queste cellule nel muscolo cardiaco, chiedendosi se effettivamente potessero essere le responsabili della formazione del tessuto di cicatrizzazione. Hanno creato dei modelli di infarto e hanno poi studiato i nostri modelli di cardiopatia. In parallelo hanno poi verificato che una sottopopolazione di queste cellule, sia nel caso dell'infarto, sia della cardiomiopatia, attivava un programma di differenziamento, per il controllo del quale è stato individuato un gene chiave, chiamato Hic-1 che, quando non è attivo, induce il differenziamento delle cellule. In seguito hanno verificato che inibendo queste vie di segnalazione possono prevenire la formazione di tessuti fibrosi e adiposi”.
L'aver individuato il gene che induce questo differenziamento è quindi un risultato notevole che apre alla possibilità di individuare degli inibitori che possano mitigare gli effetti della patologia. Ed è proprio in questa direzione che la ricerca continua.
“Al momento i pazienti vengono trattati con farmaci che curano i segni della malattia, ovvero gli antiaritmici, i betabloccanti o, nelle forme più gravi, impiantando un defibrillatore”, ci dice la professoressa Rampazzo. “Avendo ora identificato quali sono le cellule coinvolte nei nostri modelli animali, stiamo studiando come queste si differenziano in tessuto adiposo e tessuto fibroso e stiamo testando già dei farmaci in modo da bloccare questo differenziamento. Stiamo dunque portando avanti la ricerca nella speranza di individuare una molecola da testare in vivo negli animali e poi, possibilmente, nell'uomo”.
“Questa pubblicazione su una rivista di gran prestigio è frutto di una collaborazione con un gruppo canadese molto rinomato”, conclude la professoressa Braghetta. “In questi casi è fondamentale la capacità di mantenere relazioni di collaborazione che sono essenziali nell'attività biomedica di ricerca, perché non è possibile pensare di fare ricerca ad alti o ad altissimi livelli se non si allacciano collaborazioni proficue e positive con gruppi di ricerca in possesso di tecnologie più avanzate”.
Lo studio in questione si inserisce, infatti, all'interno di un agreement sottoscritto di recente dall'università di Padova con la British Columbia di Vancouver, volto a promuovere la collaborazione scientifica e didattica.