Italiano, romano, preso e deportato ad Auschwitz con la famiglia nel 1944, a soli 15 anni.
Piero Terracina, venuto a mancare lo scorso 8 dicembre a 91 anni, è stato uno dei pochi usciti vivi dal campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau, e tra i pochissimi sopravvissuti della comunità ebraica romana. Come tanti altri che hanno vissuto la terribile esperienza della deportazione, ha deciso, dopo decenni di silenzioso dolore, di condividere i suoi ricordi. È stato tra i primi a prendere questo impegno, e dagli anni ’80 non ha mai smesso di frequentare le scuole, consegnando ai più giovani la propria testimonianza, nella speranza di rendere la nostra società il più possibile immune dall’odio, dalla xenofobia, dal razzismo – e dai loro esiti distruttivi.
Piero Terracina credeva nell’importanza della memoria. Per trent’anni ha incessantemente ripercorso i propri peggiori incubi, forte della certezza di fare qualcosa di utile, di spargere semi fecondi. E tutti quei ragazzi che hanno ascoltato lui e gli altri testimoni, vittime superstiti di quella nera pagina della nostra storia, sono divenuti – volenti o nolenti – “testimoni di secondo grado”.
Coloro che – come chi scrive – hanno ascoltato le parole, hanno visto le lacrime e raccolto la memoria delle vittime della Shoah non possono che farsi traghettatori di tale eredità: devono assumere su di sé la responsabilità che questa memoria non si affievolisca, per impedire che, per paura o soltanto per inerzia, la nostra società ceda alle allettanti, ma pericolose, retoriche populiste, e per far sì che in essa rimangano ben saldi i valori di rispetto e libertà su cui è fondata – valori che nascono proprio dalle ceneri di quell’immenso, innocente dolore.