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Il pipistrello, unico mammifero volante, è uno dei principali indiziati per la ricostruzione della catena di specie selvatiche che hanno fatto da ‘serbatoio’ al SARS-CoV-2, rendendo possibile, poco più di due anni or sono, il salto di specie verso gli umani. Da tempo, in effetti, l’ordine dei Chiroptera attira l’attenzione degli scienziati per via della sua grande capacità di ospitare con un alto livello di tolleranza virus di varia letalità; questo rende le molte specie di pipistrelli dei perfetti ‘serbatoi’ di virus, e una crescente minaccia per la salute umana.
Uno studio condotto da ricercatori delle università di Berkeley (California) e di Glasgow (Scozia), pubblicato sui Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), ha passato in rassegna le attuali conoscenze sulle malattie di origine zoonotica che hanno segnato la storia della salute pubblica globale dal 1950 ad oggi, cercando di individuare tendenze e regolarità che ci consentano di essere più preparati quando, a causa dell’estesa degradazione degli ambienti e della sempre più diffusa convivenza forzata tra specie selvatiche ed esseri umani, comparirà la prossima pandemia.
Il primo elemento di novità rispetto ad altre ricerche incentrate sulle zoonosi consiste nei parametri presi in considerazione: non si indaga, infatti, soltanto la capacità o meno di un patogeno di infettare gli esseri umani, ma si tiene conto di fattori come la virulenza, la trasmissibilità e il numero di decessi. Inoltre, si cercano di individuare i taxa animali e i gruppi virali che più di frequente hanno rappresentato un alto rischio zoonotico per la nostra specie.
I dati a disposizione mostrano come un gran numero di zoonosi sia emerso da specie appartenenti all’ordine dei pipistrelli o alla classe degli uccelli: ciò sembra esse connesso alla mobilità, alla natura gregaria e alla capacità di adattarsi ad ambienti antropici di questi animali. Quel che, tuttavia, ad oggi non è stato ancora accertato è l’effettiva pericolosità, per l’uomo, dei diversi virus che emergono da queste specie. Lo studio in questione si propone esattamente di valutare il diverso grado di pericolosità dei virus in relazione alle caratteristiche degli organismi ‘ospitanti’ e ad alcuni tratti genetici delle stesse famiglie virali.
I tre fattori di controllo (virulenza, cioè la gravità della malattia; trasmissibilità, cioè la capacità di diffusione nella popolazione umana; numero complessivo di decessi, dato dall’interazione tra virulenza e trasmissibilità) sono stati utilizzati per delineare un quadro delle 87 malattie a trasmissione zoonotica per le quali sono stati registrati almeno due casi dal 1950 ad oggi.
Thrilled to share our new paper, "Bats host the most virulent—but not the most dangerous—zoonotic viruses", led by the brilliant @SarahEGuth, out this week in #PNAS:https://t.co/zYfwTSEgB4
— Cara Brook (@caraebrook) March 30, 2022
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Virulenza
Per quantificare la virulenza è stato usato come proxy il tasso di mortalità in rapporto ai contagi (Case Fatality Rate, CFR). Nella maggior parte dei casi, le malattie di origine zoonotica sono poco virulente: più del 30% del campione presenta un CFR pari a 0, e più della metà dei virus considerati presenta un CFR inferiore o uguale al 10% (10 decessi ogni 100 contagi). Tuttavia, più di due terzi dei virus a cui è associato un tasso di mortalità per caso piuttosto alto (pari o superiore al 50%) derivano da ‘serbatoi’ di specie di pipistrelli. Ciò significa che l’ordine dei chirotteri ha il più alto impatto in termini di virulenza: infatti, i virus trasmessi agli umani dai pipistrelli presentano, in media, un CFR decisamente alto, pari al 65,6%.
È interessante notare come queste caratteristiche non siano riscontrate nei virus derivanti dagli uccelli. Ciò contraddice l’ipotesi di lavoro formulata dai ricercatori, secondo la quale il maggior contributo all’emersione di zoonosi dato da questi due taxa avrebbe potuto avere, come comune denominatore, una serie di adattamenti convergenti legati alla capacità di volare, tra cui adattamenti metabolici che contrastano l’invecchiamento (sia i pipistrelli che molti uccelli raggiungono età ragguardevoli in proporzione alle loro dimensioni corporee) e che, solo nel caso dei pipistrelli, aumentano la tolleranza ad infezioni. Dalle analisi, tuttavia, è emerso come gli uccelli diano un contributo neutro alla variazione del tasso di mortalità per numero di casi: una possibile spiegazione di tale divergenza consiste nel fatto che, seppure una certa distanza filogenetica della specie serbatoio dagli umani aumenti la virulenza, qualora la distanza sia troppo ampia (come è nel caso della relazione tra esseri umani e uccelli, che appartengono a due classi diverse di vertebrati) questa correlazione decada.
Trasmissibilità
Sembra che la trasmissibilità all’interno della specie umana sia una caratteristica piuttosto rara tra le zoonosi: infatti, il 71,3% dei virus analizzati non si diffonde all’interno della popolazione umana in seguito all’evento di spillover. Solo il 14,9% delle specie di virus è capace di diffusione tra gli umani, e all’interno di questo piccolo gruppo, la maggior parte (più del 60%) proviene da primati. Dunque, in maniera speculare alla virulenza, la trasmissibilità aumenta con la maggiore vicinanza filogenetica tra la specie ‘serbatoio’ e la specie target.
Foto: Zdeněk Macháček/Unsplash
Decessi
Per quanti riguarda il numero di morti, nella maggior parte dei casi il pegno pagato dalla nostra specie è piuttosto basso: circa il 40% dei virus considerati non è associato ad alcun decesso, e il 62,5% è correlato a meno di 50 morti negli ultimi 70 anni. I virus più letali appartengono alle famiglie dei Coronaviridae, Orthomyxoviridae, e Rhabdoviridae, con una menzione speciale per il SARS-CoV-2, il virus dell’influenza A e quello della rabbia. Due fattori positivamente correlati al numero totale di decessi sono la vicinanza filogenetica tra gli umani e la specie ospite e la ricchezza in specie di un determinato ordine ‘serbatoio’.
Tuttavia, i ricercatori sottolineano che, per quanto riguarda il numero totale di decessi, a risultare determinanti non sono tanto le caratteristiche del taxon che fa da serbatoio al virus, quanto alcuni tratti dei virus stessi, come la modalità di trasmissione (i virus più letali si diffondono per via respiratoria: a virus con tali caratteristiche è stato attribuito l’85,9% dei decessi inseriti nel dataset) e il bilanciamento tra capacità di contagio e virulenza.
Per di più, c’è da considerare che il numero totale di decessi legato a una zoonosi dipende da variabili complesse, e che dunque non può essere accuratamente predetto considerando solamente i caratteri biologici del virus o dell’organismo ospite. Entrano in gioco, infatti, anche le dinamiche epidemiologiche interne alle popolazioni umane, e non possono essere trascurati i fattori economici e sociali nella gestione più o meno efficiente della salute pubblica.
Prevenzione e complessità
Per comprendere il vero impatto sulla salute umana dei virus di origine animale, bisogna poi considerare che tutti questi fattori interagiscono costantemente. Potrebbe accadere, ad esempio, che virus altamente virulenti non determinino un alto numero di decessi, poiché la loro capacità di trasmissione è bassa e si creano cluster isolati di contagio (si parla, in tal caso, di “virulenza maladattativa”, in quanto la morte degli organismi ospiti riduce la fitness del virus). Da questo punto di vista, il caso dei pipistrelli è singolare, poiché si colloca all’intersezione tra alcune circostanze che favoriscono i virus tanto in termini di virulenza, quanto di trasmissibilità. Innanzitutto, tra umani e pipistrelli non vi è una distanza filogenetica abbastanza ampia da ridurre significativamente la capacità dei virus di compiere il salto di specie. D’altra parte, la storia evolutiva dei pipistrelli è segnata da alcuni adattamenti che hanno portato allo sviluppo di una grande tolleranza virale; il risultato è stato la selezione naturale di virus con tassi riproduttivi molto rapidi con cui i pipistrelli convivono mostrando tassi ridotti di morbidità e mortalità, ma la cui virulenza si manifesta in specie meno tolleranti, come gli esseri umani.
Alla luce delle evidenze raccolte, però, i ricercatori sostengono che il più utile previsore della pericolosità di un virus di origine animale non sia tanto la sua virulenza, ma il numero totale dei decessi, valore che offre indicazioni tanto sulle caratteristiche biologiche di virus e animali ospiti, quanto sull’interazione di questi fattori con le condizioni epidemiologiche contingenti nelle comunità umane. Per sperare di prevedere i prossimi eventi epidemici, dunque, è necessario lavorare in maniera trasversale, e soprattutto – avvertono gli autori – fare di tutto per «prevenire le condizioni epidemiologiche che favoriscono i casi più pericolosi di emersione di virus zoonotici».