Foto: Massimo Pistore
“Corri Capaccioli, corri! Margherita tira un calcio al pallone e incita il compagno di squadra a vincere la sua naturale repulsione per ogni sforzo fisico e a darsi finalmente da fare. Siamo a Erice, in Sicilia, verso la fine degli anni Sessanta, alla Scuola estiva di astrofisica. Una partitella, nella pausa tra una lezione e l’altra. Calcetto. Lui, quello che se ne sta fermo, lì impalato, è un pezzo di giovane alto e robusto, intorno ai 25 anni: Massimo Capaccioli, toscano della Maremma, futuro direttore dell’osservatorio astronomico di Capodimonte a Napoli. Lei, quella che corre, impreca, tira calci al pallone e si danna l’anima per vincere la partita, è una signora prossima ai 50, in apparenza minuta: Margherita Hack”. Toscana, di Firenze, e direttrice dell’osservatorio astronomico di Trieste. La prima donna ad avere questo incarico. Fin dalle prime righe del libro di Pietro Greco, edito da L’Asino d’oro, emergono immediati alcuni dei tratti che caratterizzarono la scienziata, dalla determinazione, alla franchezza, dalla passione per lo sport, all’impegno scientifico. Nel giorno in cui avrebbe compiuto 100 anni, il 12 giugno 2022, la vogliamo ricordare con le parole di chi l’ha conosciuta personalmente.
“Margherita Hack era un’esperta di stelle – racconta Steno Ferluga, allievo, collega e amico di famiglia della scienziata – e ha lasciato un segno importante nella ricerca astronomica, nel campo della spettroscopia, nello studio delle lunghezze d’onda emesse dalle stelle. Dal punto di vista scientifico, aveva un approccio moderno, perché è stata tra i primi a usare i satelliti per osservazioni astronomiche; oggi è una pratica comune, ma allora non era così consueto. È stata direttrice dell’osservatorio astronomico di Trieste per anni ed era benvoluta da tutti, perché molto democratica e generosa. Ha aiutato studenti, borsisti, colleghi, quando si trovavano in difficoltà economiche, senza mai tuttavia favorire le carriere. Era una benefattrice, ma non voleva che si sapesse”.
Foto: Cirone-Musi, Festival della Scienza 2011. Wikimedia Commons
Di Margherita Hack Steno Ferluga ricorda anche l’impegno sociale e politico: “Margherita era un’appassionata di politica, della sinistra, era una comunista vecchio stampo, seguace di un comunismo romantico che ha poca cittadinanza nel mondo moderno, ma che lei considerava un impegno di giustizia. Si era impegnata personalmente in diverse elezioni, era stata eletta anche in Parlamento, ma poi rinunciò perché voleva occuparsi del marito e dei suoi animali”. È la scienziata stessa a sottolinearlo in Qualcosa di inaspettato. I miei affetti, i miei valori, le mie passioni, libro scritto in collaborazione con il giornalista Mauro Scanu: “Non mi sono mai iscritta a un partito, ma sono sempre stata di sinistra, ho il cuore rosso. Le mie prime battaglie politiche furono quelle per la democratizzazione del nostro ambiente scientifico, iniziate attorno al 1968, quando da Berkeley e dalla Francia gli echi del movimento studentesco arrivarono addirittura sino al chiuso mondo degli osservatori astronomici italiani”.
Hack difendeva uno Stato laico, riconosceva il diritto all’eutanasia, sottolineava l’importanza di investire nella ricerca, perché la conoscenza rende liberi, sosteneva il pacifismo. Difendeva strenuamente i diritti delle donne, dentro e fuori il mondo scientifico, e caldeggiava la fine delle discriminazioni. Era in prima linea su temi come il rispetto e la difesa degli animali e il vegetarianesimo. Il suo amore per gli animali affondava le radici nella cultura teosofica dei genitori, secondo cui tutti gli esseri viventi meritano rispetto, empatia e solidarietà. Un principio, questo, su cui si fondava anche la sua visione politica.
Molto profondo fu il legame che per circa 70 anni unì la scienziata al marito Aldo De Rosa. Ferluga lo dipinge come un uomo colto, un filosofo di straordinaria intelligenza, che aveva sempre appoggiato la moglie nel corso di tutta la carriera scientifica e nella sua attività di divulgazione. “Provo una grande ammirazione per questa coppia, anche per il legame strettissimo che i due avevano, che fondeva la profondità dell’uno e l’immediatezza dell’altra”. Nel corso degli anni le due famiglie erano diventate amiche anche per il comune amore per gli animali. “Avevamo insieme 20 gatti salvati dalla strada – racconta Ferluga –. Mia moglie li curava e li teneva in casa, e così faceva Margherita. Per questo avevano instaurato una profonda amicizia. Quando mia moglie è venuta a mancare, Margherita si è offerta di aiutarmi, anche per tutto ciò che potesse servire ai gatti. E quando è morta pure lei, sebbene in fin di vita e incapace di reggere la testa per la debolezza estrema, l’ultimo suo pensiero è stato ancora una volta per quei poveri animali”.
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A frequentare la casa di Margherita Hack proprio negli ultimi mesi di vita, da febbraio a maggio del 2013, furono Serena Gradari e Fabio Pagan che, insieme alla scienziata, stavano lavorando alla stesura di un libro pubblicato quello stesso anno con il titolo Io penso che domani. Il racconto di una testimone del Novecento.
“Allora ero una giovane ragazza, laureata in astrofisica e comunicatrice della scienza – racconta Gradari – e, dopo aver a lungo sentito parlare della scienziata, avevo finalmente la possibilità di conoscerla e di entrare nella sua abitazione. Il primo giorno quando siamo arrivati, lei era lì, alla porta d’ingresso ad accoglierci con un bel sorriso, nonostante fosse affaticata. Casa sua era una piccola villetta con un giardinetto antistante. All’interno un’enorme quantità di scaffali pieni di libri determinava la geometria della stanza”. Erano almeno 30.000 volumi, scrive la scienziata stessa in Hack! Come io vedo il mondo, disposti un po' dappertutto, in cucina, sul tavolo da pranzo, davanti ai divani. Tutte le pareti utili erano coperte di libri. In una sezione, le pubblicazioni scientifiche di Margherita Hack, in un’altra i volumi di divulgazione scientifica e le sue biografie. C’erano poi i dizionari e le enciclopedie; libri di religione, antropologia e narrativa. Kerouac, Lewis Carrol, Arrigo Boito, Heinrich Böll, Ismail Kadaré, Bassani, Piovene, Dante, Pavese, Papini erano solo alcuni degli autori presenti.
“Ciò che mi colpì durante quelle conversazioni – continua Gradari – furono l’estrema disponibilità e generosità, innanzitutto nel mettersi a disposizione. Margherita Hack aveva subito aderito al nostro progetto e, nonostante il fisico provato, aveva energie mentali che voleva mettere in campo”. Insieme ai tre nella stanza durante quelle chiacchierate, in una poltrona c’era sempre il marito Aldo ad ascoltare. “Margherita Hack era una donna estremamente appassionata del proprio lavoro. Era all’avanguardia in molti ambiti che rendevano vivo il dibattito pubblico, dalle questioni sociali, religiose fino a quelle di genere, e su queste si esponeva, poiché riteneva che per far andare le cose si dovesse cambiare anche la politica”. Aveva un modo di guardare al mondo che oggi è considerato moderno.
“Era una persona di un certo livello, che aveva raggiunto un determinato status, anche un riconoscimento ‘pop’, perché tutti ormai ne conoscono il nome anche a dieci anni dalla morte, e che tuttavia continuò a lavorare fino alla fine, riconoscendo i suoi meriti, ma – con estrema umiltà – senza considerarsi una scienziata eccezionale”. Nonostante, oggi, le venga attribuito il merito di aver dato una svolta all’astronomia in Italia.
Foto: Massimo Pistore
In dieci anni Margherita Hack riuscì, per esempio, a trasformare l’osservatorio astronomico di Trieste dando rilievo e prestigio a una piccola realtà isolata qual era. “Quando è arrivata nel 1964 – spiega Gradari –, l’osservatorio di Trieste era davvero in fondo alla lista tra quelli italiani, sia a livello di strumentazione che di risorse umane. Penso ci fossero letteralmente tre persone impiegate. Con una lungimiranza incredibile, che aveva ereditato guardando a come si lavorava all’estero e cercando di assorbire il più possibile, si mise subito alla ricerca di studenti innanzitutto, perché dal suo punto di vista per far vivere un osservatorio era necessario avere studenti che facessero ricerca, didattica, e tenessero vivo il posto. Senza contare l’impegno che profuse per migliorare la strumentazione. Si deve a lei, infatti, la creazione della succursale osservativa a Basovizza, sul Carso”. La scienziata aveva appreso come si gestiva un osservatorio astronomico moderno in particolare da Giorgio Abetti, suo docente e direttore dell’osservatorio astronomico di Arcetri vicino a Firenze, e Otto Struve, direttore dell’osservatorio di Yerkes a Chicago tra il 1932 e il 1950 e MacDonald nel Texas, oltre che dell’osservatorio di Leuschner, dopo essere stato nominato professore di astrofisica nel 1950 a Berkeley. Aveva capito che per rafforzare l’istituzione era necessario aumentare il numero di ricercatori; migliorare il parco strumenti, reperendo fondi; trovare un luogo dove installare le attrezzature; e convincere i giovani a dedicarsi all’astronomia, attraendo studenti. Obiettivi che la scienziata negli anni riuscì a raggiungere: “Quando alla fine degli anni Ottanta Margherita Hack va in pensione – conclude Gradari –, l’osservatorio di Trieste non solo vede impiegata un’ottantina di persone, ma era divenuto (e lo è tuttora) un centro riconosciuto a livello internazionale”.