SOCIETÀ

Ritirata da Kabul. Un’analisi della sconfitta in Afghanistan

Oltre mezzo secolo fa, Patrick Macrory pubblicò un volume intitolato Retreat from Kabul. The Catastrophic British Defeat in Afghanistan. Storico dilettante ma scrittore puntuale e brillante, Macrory aveva prodotto quello che si può ritenere ancora il più puntuale resoconto della peggiore disfatta delle forze britanniche nel XIX secolo, l’annientamento di un corpo di spedizione inviato a occupare Kabul nel 1839 e massacrato nel corso di una precipitosa ritirata meno di tre anni dopo. Dei cinquemila combattenti inviati a occupare la capitale afghana, e delle molte migliaia di familiari e inservienti che li seguivano, secondo le alquanto disinvolte usanze degli eserciti coloniali, non sopravvisse che una manciata di uomini. Secondo la tradizione, nel gennaio 1842, dopo una terrificante marcia in pieno inverno durante la quale militari e civili britannici e indiani erano stati colpiti dai cecchini, assassinati nel corso di finti negoziati o erano semplicemente morti per il freddo e la stanchezza, un solo uomo, l’ufficiale medico William Brydon, si presentò sfinito alle porte della città fortezza di Jalalabad, ancora in mani inglesi. Quando gli chiesero dove fosse finito il resto dell’armata, Brydon si limitò a rispondere: “I am the army”.

È difficile non essere colpiti dalle analogie tra gli eventi del gennaio 1842 e la fine dei vent’anni di guerra in Afghanistan – la ‘più lunga guerra’ come è stata definita da molti leader statunitensi – di questi giorni.

Certo, le forze della coalizione occidentale non sono state propriamente cacciate dalle città, come capitò agli sfortunati fanti inglesi nel 1842, quando si accorsero di non avere le risorse per fronteggiare un’insurrezione massiccia, ma hanno abbandonato la regione per precise disposizioni dei propri governi. Nessun reparto occidentale è stato circondato e annientato nel corso del ripiegamento. Nessun civile americano o europeo è stato catturato e seviziato (almeno a quanto se ne sa oggi) dai guerriglieri. E Christopher Donahue, il roccioso generale comandante della 82a divisione aviotrasportata e ultimo militare del contingente statunitense a lasciare il suolo afghano nella notte del 30 agosto, ha decisamente avuto miglior sorte del suo sprovveduto parigrado William Elphinstone, che nel 1842 morì in prigionia in Afghanistan dopo essere stato attirato in una trappola e aver visto il suo intero comando trucidato. Ma, ancora una volta, la ‘tomba degli imperi’ ha causato imbarazzo alla superpotenza di turno. Ancora una volta, dopo una vittoria sul campo rapida e schiacciante e una lunga occupazione, l’Afghanistan è stato abbandonato in tutta fretta e malamente.

Non ci si può sorprendere se, dopo la (nuova) caduta di Kabul in mano ai talebani, le domande sulle ragioni più o meno lontane del fallimento della missione internazionale in Afghanistan hanno ricominciato a circolare. Dando il via a una ridda di letture più o meno fondate.

Nel 2020, quando l’opinione pubblica italiana era ossessionata da problemi di tutt’altra natura (e concentrata sugli schiamazzi di un’armata di virologi autoproclamati sul campo), Gastone Breccia pubblicava per Il Mulino Missione fallita, un volume brillante e informato sulle cause di quello che si stava profilando, dopo l’annuncio di Trump sulla fine della missione, già come un disastro annunciato. All’epoca ne avevamo chiacchierato insieme (Qui l’intervista sul suo libro). Oggi torniamo a discuterne insieme per cercare di dare un senso a un collasso – quello della struttura politica e militare organizzata dalla coalizione – che a molti è parsa inspiegabile.

Cominciamo dalle cause, quelle remote e quelle immediate che aiutano a capire la liquidazione fallimentare e senza apparente via di uscita di vent’anni di politica occidentale.

“C’è una causa che riassume tutte le altre: mission creep, lo ‘scivolamento’ della missione iniziale –risponde Breccia –. All’inizio sembrava tutto semplice: abbattere il regime dei talebani, eliminare i militanti di al-Qa’ida e i loro campi di addestramento dal paese, catturare o uccidere Osama bin Laden. Poi si scivola verso obiettivi vaghi, troppo ambiziosi, mai del tutto condivisi tra opinione pubblica, decisori politici e gerarchia militare. Donald Rumsfeld aveva iniziato la guerra secondo il principio del light footprint, l’‘impronta leggera’: operazioni affidate agli alleati afghani con appoggio aereo statunitense, coordinato sul terreno da pochi uomini delle forze speciali. Il successo fu persino più rapido e completo del previsto. I talebani furono cacciati in poco più di un mese da Kabul, in due da Kandahar, e ridotti ad offrire la resa. A quel punto sarebbe stato saggio dichiarare ‘missione compiuta’ (senza perdite statunitensi) e lasciare agli afghani ‘buoni’ il compito di prendere in mano il destino del proprio paese (con sostanzioso sostegno dall’esterno, ovviamente, che a quel punto sarebbe stato ben accetto dalla maggioranza della popolazione). Osama bin Laden era ancora in fuga, certo, ma nell’impossibilità di nuocere, e si sarebbe potuto istituire una corte internazionale per indagare sul Nine/Eleven ed emettere una condanna contro il capo di al-Qa’ida e gli altri responsabili dell’attacco terroristico. Gli Stati Uniti sarebbero usciti a testa alta, anche moralmente, dall’intera vicenda già alla fine del 2001, con minima spesa di denaro e senza versare altro sangue”.

Invece sono rimasti in Afghanistan. Ma senza una strategia precisa a medio/breve termine e con l’apertura, di lì a breve, di un secondo fronte in Iraq…

“Esatto. Nel 2003 l’attenzione statunitense viene dirottata sul teatro iracheno. Da allora l’Afghanistan ha vissuto una storia infelice e paradossale. Troppe poche risorse destinate alla ricostruzione e alla sicurezza, per strano che possa sembrare, nonostante l’inizio della missione ISAF (International Security Assistance Force) della NATO, estesa progressivamente a tutto il territorio afghano dopo il voto del Consiglio di Sicurezza del 13 ottobre 2003. Nessuna chiarezza sugli obiettivi – nation building su vasta scala? O qualcosa di meno, ovvero garantire la sicurezza del Paese finché gli afghani non fossero stati in grado di fare da soli? E ‘garantire la sicurezza’ significava uccidere comunque più ‘insorti’ possibile, andando a stanarli nei loro santuari e costringendo anche il Pakistan a collaborare, oppure limitarsi a rispondere ai loro attacchi, rintuzzare le minacce con un atteggiamento più paziente, lavorare soprattutto all’organizzazione e all’addestramento dell’Afghan National Army (ANA) e delle forze di polizia? Nessuno sapeva dirlo con certezza. Uccidere gli insorti serviva a poco. ‘Molta della gente che stavamo ammazzando – avrebbe dichiarato poi il generale Richard Dannatt, capo di Stato Maggiore britannico dal 2006 al 2009, – erano in realtà semplici contadini a cui i leader talebani avevano messo in mano un Ak-47. Una specie di talebani part-time, non molto addestrati al combattimento. Ne uccidevamo un numero enorme: ma questo non ci rendeva particolarmente felici, perché eravamo consapevoli del fatto che quando eliminavamo uno di loro, in realtà stavamo alimentando l’insurrezione’. Il problema era abbastanza chiaro, dunque: ma senza soluzione. Come non era una soluzione distruggere le coltivazioni di papaveri da oppio, gettando i contadini sul lastrico e spingendoli tra le braccia degli insorti, né ignorarle, permettendo di fatto – nella situazione di generale insicurezza causata dalla guerriglia, comunque attiva in molte zone del paese – la diffusione del contrabbando”.

La presidenza Obama come ha influito sulla situazione?

“Barack Obama prese atto della situazione nel giugno del 2011. Dopo aver autorizzato, l’anno precedente, un surge sull’esempio iracheno, ovvero l’invio di altri soldati (comunque troppo pochi per sconfiggere militarmente i talebani), il presidente pronunciò un discorso ‘sulla via da seguire in Afghanistan’, dichiarando pubblicamente, per non spaventare il proprio elettorato stanco di guerra, che ‘si stavano raggiungendo i chiari obiettivi previsti nel 2010’, ovvero ‘tornare a focalizzarsi su al-Qa’ida, togliere l’iniziativa ai talebani, addestrare le forze di sicurezza afghane a difendere il loro territorio’ (‘to refocus on al-Qa’ida, to reverse Taliban’s momentum, and train Afghan security forces to defend their own country’). Per la verità non erano obiettivi molto chiari, né c’era alcun segno che li si stesse raggiungendo. Nonostante questo, Obama proseguì annunciando l’inizio del ritiro delle truppe USA dall’Afghanistan, precisando che sarebbe stato completato entro il 2014: ‘la nostra missione cambierà, da combattimento a supporto. Entro il 2014 questo processo di transizione sarà completato, e il popolo afghano sarà responsabile della propria sicurezza’. È giusto ricordare quelle parole come l’inizio della fine. Perché in una guerra asimmetrica come quella tra l’Occidente e i talebani, gli insorti sanno che la vittoria sarà loro se riescono a sopravvivere abbastanza a lungo da stancare il nemico. Non possono sconfiggerlo sul campo, ovviamente, ma possono logorarlo un giorno dopo l’altro, obbligandolo a spendere blood & treasure in misura tale da esaurire il proprio consenso politico interno, e quindi essere costretto a rinunciare alla lotta. Una guerra come quella afghana diventa un tragico gioco di pazienza: perché anche gli insorti faticano a tenere il campo e mantenere l’appoggio della popolazione, se il solo risultato che ottengono è prolungare una situazione di insicurezza collettiva; ma se chi sostiene il governo comunica in anticipo la data della fine dell’impegno militare diretto la partita è persa, a meno che quel governo e le sue forze armate non si rivelino capaci di proseguire la lotta da soli. Sappiamo bene com’è andata; lo sapevano o lo temevano anche molti afghani, fin dall’estate del 2011”.

In un recente intervento, Henry Kissinger ha definito il progetto di esportare la democrazia (o quantomeno lo stato moderno) in Afghanistan ‘incompatibile’ con i tempi della politica statunitense: un rilievo che è stato avanzato da più di un analista. La pretesa di creare le strutture di uno Stato centrale, laico e razionale nel cuore di un Paese governato da una galassia di poteri policentrici e tribali parrebbe un’impresa impossibile per i ritmi tachicardici del modello americano, almeno degli ultimi due decenni: radicali mutamenti di strategia a ogni cambio di presidenza, tentazioni isolazionistiche e ripiegamenti in sé a fronte di un disegno che richiederebbe un investimento di risorse massiccio ma soprattutto protratto nel tempo.

“Sostanzialmente sono d’accordo. L’azione di un governo democratico ha un ritmo ‘tachicardico’, come tu dici, perché – per fortuna – dipende dal consenso dell’elettorato, che difficilmente riesce a far propria ed apprezzare una strategia di vasto respiro, soprattutto se non vede risultati positivi, non percepisce la ‘gratitudine’ della popolazione che ne dovrebbe trarre vantaggio, e finisce per soffrire soltanto lo sperpero di blood & treasure. Costruire un Paese non può che essere un’operazione lunga e costosa, tanto più difficile quanto la cultura del Paese stesso – intesa nel senso più ampio – è lontana dalla nostra. Un conto è fare nation building in Germania o in Giappone dopo aver vinto una terribile guerra convenzionale, di cui quei Paesi e la loro gente sapevano di portare la responsabilità maggiore; Paesi dove gli USA e i loro alleati, tra l’altro, si erano insediati con forze militari ingenti per restare senza una ‘data di scadenza’. Tutt’altra cosa ricostruire l’Afghanistan, il cui regime è stato rovesciato nel 2001 per colpe che molti suoi abitanti ignoravano e ignorano tuttora, e dove non si è mai riusciti, dopo la ‘liberazione’ dai primi talebani, a formare una classe dirigente adeguata. Questo tipo di missione si è rivelata impossibile per le democrazie occidentali. Pensare che il consenso potesse essere mantenuto ripetendo il ritornello della ‘minaccia terroristica alle nostre città’, che sarebbe tornata a farsi reale qualora l’Afghanistan fosse stato abbandonato al suo destino, era un’idea stupida. Come dice il proverbio, ‘puoi ingannare tutti per qualche tempo o qualcuno per tutto il tempo, ma non tutti per tutto il tempo’.

Uno degli aspetti più clamorosi, quantomeno agli occhi dell’osservatore non esperto, è il collasso delle forze di sicurezza afghane armate e organizzate dalla coalizione a guida statunitense. Di fatto, l’esercito del governo di Kabul si è liquefatto in alcuni giorni. È una valutazione corretta? E se sì, come lo si può spiegare? Dopo tutto, i mujaheddin impiegarono tre anni, dopo il ritiro sovietico nel 1989, per mettere piede nella capitale abbattendo la Repubblica Democratica dell’Afghanistan.

“Sì, è una valutazione corretta, ma nessuno avrebbe dovuto stupirsi troppo. L’Afghan National Army, dopo il 2015, stava perdendo circa il 30% degli effettivi ogni anno tra morti, feriti e (soprattutto) disertori. Chiunque abbia una minima esperienza di cose militari sa che questo significa trovarsi di fronte a un esercito in disfacimento. Le reclute che venivano sommariamente addestrate per riempire i vuoti non erano né sufficienti né affidabili. Ma il fattore determinante è stata la percezione diffusa tra i militari afghani di agire agli ordini di un governo ormai condannato dagli accordi di Doha, privo di autorevolezza, considerato dalla maggioranza della popolazione non solo asservito agli stranieri, ma corrotto e inefficiente oltre ogni possibilità di riscatto”.

Altro elemento apparentemente inspiegabile per l’osservatore inesperto: il fallimento dell'intelligence. Che, dopo il ritiro americano, i giorni del governo afghano fossero contati, era scontato (e del resto non mi pare che il suo futuro fosse nemmeno menzionato nei fumosi accordi di Doha). Ma le previsioni spacciate attraverso i media andavano da alcuni mesi di resistenza ad alcune settimane per i più pessimisti…

“Questa è la sola cosa che anch’io ho trovato davvero sorprendente. Perché a nessuno piace fare la figura dello stupido davanti al mondo: Biden e il suo segretario di Stato si sono esposti al ridicolo, con le loro dichiarazioni di fine luglio e inizio agosto, verosimilmente sulla base di informazioni errate ricevute dalla CIA. Non sarebbe la prima volta. L’altra possibilità – ovvero che abbiano volutamente ignorato i rapporti che descrivevano la disfatta imminente dell’Afghan National Army – può essere spiegata solo con la volontà, da parte del presidente e della sua amministrazione, di non offrire un pretesto ai militari per ritardare l’evacuazione. In questo caso si sarebbero assunti una responsabilità molto grave: il che potrebbe far riflettere sulla gravità ancora maggiore dell’alternativa, ovvero sui pericoli di un prolungamento anche di poche settimane della presenza militare occidentale. Lo sapremo, forse, tra qualche tempo”.

Tornando alla lettura di Kissinger sull’impossibilità strutturale di condurre campagne di occupazione in Afghanistan, il precedente del 1842 è stato troppo sottovalutato da leader militari digiuni di modelli storici?

“Non credo che ci sia qualche alto ufficiale della NATO così ignorante da non conoscere la storia delle guerre afghane. Esiste però una forma particolare di hybris piuttosto comune tra i militari occidentali impegnati in conflitti ‘asimmetrici’: pensano che la tecnologia di cui possono disporre li metta al riparo da una disfatta. È un modo di ragionare ottuso. È vero, nessun battaglione di marines farà mai la fine del 44th Regiment of Foot sulla strada del passo Khyber. Ma ci sono ‘disfatte’ morali altrettanto gravi, anzi rese più gravi proprio dal fatto di disporre di tecnologia avanzata e armamento superiore a quello del nemico. La fine degli inglesi a Gandamak, quando il capitano Souter fu risparmiato perché si era avvolto attorno al petto la bandiera del reggimento, è rimasta leggendaria anche tra gli afghani; è facile immaginare come resterà impressa nella loro memoria collettiva la ritirata dei soldati occidentali nel 2021”.

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