CULTURA

Missione fallita. La lunga guerra in Afghanistan e la sconfitta degli Stati Uniti

Afghanistan, la lunga guerra dimenticata. 

Diciotto anni e mezzo. Si trascina da tanto il conflitto in Afghanistan, iniziato il 7 ottobre 2001, con le prime missioni di bombardamento delle forze aeree statunitensi contro il regime dei talebani all’epoca al potere a Kabul. Poco più di un mese dopo, la guerra convenzionale era terminata. L’Emirato Islamico dell’Afghanistan non esisteva più, la capitale era nelle mani delle milizie della shura-i-nazar (l’“Alleanza del Nord”, come impropriamente la conosciamo in Occidente) e la presidenza di George W. Bush sembrava aver riportato un trionfale (e indolore) successo nella crociata contro il terrorismo. Oggi, marzo 2020, l’effimera vittoria di quei giorni, salutata con tanto entusiasmo in particolare dai media statunitensi in cerca di un colpevole dopo il trauma dell’11 settembre, ha il sapore della beffa. Soprattutto, in tempi di pandemia, l’attenzione del pubblico (specialmente di quello italiano, fin troppo disattento a simili questioni) è calamitata altrove. Ma la realtà brutale è che l’Afghanistan non è diventato un luogo più sicuro, la missione non è stata completata e il trattato di pace siglato da Washington e talebani a fine febbraio sembra evocare fin troppo da vicino il fantasma del Vietnam.

A ricordarlo al pubblico italiano è un volume uscito poche settimane fa per Il Mulino: Missione fallita. La sconfitta dell’Occidente in Afghanistan. L’autore, Gastone Breccia è un analista inconsueto. Una solida formazione come antichista, l’insegnamento di Civiltà bizantina e di Storia militare antica all’università di Pavia, un congruo numero di volumi pubblicati sull’arte militare, da Scipione l’Africano all’Impero d’oriente: un profilo certamente lontano da quello dell’abituale esperto di politica internazionale o di studi strategici. Ma alla competenza dello storico della guerra, Breccia unisce anche una rara passione per l’osservazione diretta, che lo ha portato in questi anni a esporsi in prima persona per visitare i teatri di crisi più caldi, dal Kurdistan, a cui ha dedicato Guerra all’Isis. Diario dal fronte curdo (Il Mulino 2016) all’Afghanistan appunto, che ha visitato nel 2011, durante la missione ISAF. Testimone embedded e storico di mestiere. Una combinazione felice, che ha dato come risultato un volume brillante, profondo, informato e stimolante. 

Un volume che comincia, come ogni buona storia, dalle radici profonde del conflitto attuale. Dunque, perché l’Afghanistan e perché così a lungo?

“La causa immediata della guerra in Afghanistan va cercata nella volontà degli Stati Uniti di reagire dopo il trauma dell’11 settembre”, risponde Gastone Breccia. “L’attacco al cuore dell’America va vendicato in qualche modo, e la risposta più rapida consiste nel punire un regime ritenuto colpevole, se non direttamente dell’attacco alle Twin Towers, certamente di sostenerne i responsabili. La formula scelta è quella della cosiddetta light footprint(’impronta leggera’). Un assalto basato in larga parte sull’uso della forza aerea, che bombarda il bombardabile, con un dispiegamento minimo di uomini sul terreno, dove le operazioni vengono affidate a milizie clienti (proxies) reclutate sul posto. La formula della proxy war, la guerra per procura, nell’immediato ha funzionato. Entro la primavera 2002, quando viene lanciata l’operazione Anaconda, la vittoria militare viene raggiunta ed è incontestabile. Tuttavia ciò che non viene subito compreso è che, cacciati i talebani, devono essere prese alcune decisioni di enorme complessità. Certo, anche per una timidezza eccessiva nel condurre la caccia sul territorio (e per rispettare l’assioma delle zero casualties tra i militari americani), i principali capi, da Bin Laden al mullah Omar, sono sfuggiti alla cattura, e l’obiettivo politico e simbolico dell’operazione è quindi solo parzialmente raggiunto. Ciò nonostante, per alcuni mesi, diciamo perlomeno fino all’inizio del 2003, il Paese è davvero sotto controllo, non si rileva alcuna traccia di una guerriglia antiamericana. Sarebbe il momento giusto per impostare piani decisi di stabilizzazione e pacificazione, ma l’occasione non viene colta. Èun problema che mi pare si possa riassumere in una mancanza di chiarezza strategica da parte della leadershippolitica statunitense. Colpiti e sconfitti i talebani, Washington non sa più perché restare e come restare”. 

E questa visione carente sul piano strategico a cosa è dovuta?

“In parte, all’inevitabile corto respiro dei governi democratici. E al fatto che in un Paese come l’Afghanistan, così complesso dal punto di vista della frammentazione sociale, territoriale e del gioco delle fazioni, ogni pianificazione di corto respiro è destinata inevitabilmente a fallire. Potremmo riassumere il dilemma di ogni intervento nella regione (dalla Gran Bretagna alla fine del XIX secolo all’URSS) così: o te ne vai subito dopo il successo militare convenzionale, o devi sapere che rimarrai chissà per quanto tempo, spendendo chissà quali risorse nel tentativo di trasformare il Paese in uno stato cliente. Questo dilemma non è stato sciolto subito dopo la conclusione della campagna del 2001. Si è cominciato a dire che si restava per mettere in sicurezza il Paese, ma assicurando che le truppe statunitensi se ne sarebbero andate il prima possibile. O anche che si restava per impedire il ritorno ai terroristi di Al Qaeda. Da un altro punto di vista, il cambiamento di prospettiva da parte dell’amministrazione Bush, con la decisione di impegnarsi nell’invasione dell’Iraq, fu devastante per le possibilità di consolidare i risultati raggiunti con la cacciata dei talebani. L’Afghanistan fu indubbiamente la prima vittima dell’ossessione repubblicana per Saddam Hussein: dal momento in cui una seconda guerra nel Golfo è diventata la priorità, risorse e uomini sono venuti a mancare, e proprio nella fase più critica della stabilizzazione. Gli americani hanno ‘tolto gli occhi dalla palla’ troppo presto, come ha efficacemente sintetizzato Bruce Riedel (‘we took our eyes off the ball’), e hanno perso una partita che sembrava già vinta”.

Ripercorrendo la storia del fallimento americano in Afghanistan attraverso il tuo volume si ha la sensazione molto forte di rivedere il decorso patologico del disimpegno statunitense in Vietnam…

“È una sensazione diffusa. D’altra parte, l’incapacità di metabolizzare le ragioni della sconfitta è parte essenziale del mito del Vietnam nella cultura americana. Al fondo, la convinzione comune a una buona parte dell’opinione pubblica (e degli ambienti militari) è che in Vietnam ciò che aveva portato alla disfatta non era stata davvero una situazione militarmente in stallo e ingestibile sul terreno, ma il collasso del fronte interno. La guerra si poteva e si doveva vincere. Non si è capito che per farlo erano necessari alcuni elementi – uno per tutti, la chiarezza degli scopi e una coerente guida politica – che non casualmente sono mancati anche in Afghanistan”.

Un’altra impressione che si desume leggendo il tuo libro è l’impreparazione culturale della maggior parte degli ufficiali americani, anche ai vertici. Un’impreparazione soprattutto sul piano delle conoscenze storiche, che ha reso loro impossibile una relazione efficace con la miriade delle fazioni locali, ognuna gelosa della propria identità. 

“Il deficit culturale, anche da parte dei migliori ufficiali, era sconcertante. E li poneva effettivamente nell’impossibilità di mettersi in relazione con i warlords locali. In gran parte, questo disinteresse discendeva da una eccessiva fiducia nella forza militare e nelle risorse economiche che potevano dispiegare, soprattutto all’inizio della missione. Come mi disse un giorno un capitano americano: ‘non abbiamo alcun problema, i soldi arrivano‘. Ma questo approccio astratto e arrogante si è rivelato molto presto un disastro. In effetti, in Afghanistan gli Stati Uniti hanno commesso tutti gli errori che potevano commettere, applicando le stesse regole della ricostruzione in Europa dopo il 1945 e aspettandosi i medesimi risultati. Naturalmente senza successo. In Europa i piani di finanziamento e ricostruzione si erano appoggiati sulla collaborazione di comunità politicamente acculturate e avanzate, che in Afghanistan o non c’erano o erano state spazzate vie da decenni di guerre civili e invasioni.  Per stabilizzare e poi ricostruire il Paese, gli americani hanno scelto, reclutato e pagato all’inverosimile gli intermediari sbagliati; si sono appoggiati su “signori della guerra” e milizie locali che hanno finito per rivelarsi, nel caso migliore, corrotti e inefficienti. Il dramma della mancata ricostruzione afghana sta tutto nel fallimento della selezione degli intermediari, che avrebbero dovuto essere una nuova classe dirigente nazionale”.

Mi pare che l’esempio più evidente dell’astrattezza (e quindi dell’arroganza) nel gestire la transizione afghana sia dato dal fallimento personale del generale McChrystal…

“Quando assunse il comando delle operazioni NATO in Afghanistan, nel 2009, Stanley McChrystal  era senza dubbio considerato uno dei militari più brillanti in servizio nell’esercito americano. Veniva da un’esperienza di forze speciali e operazioni coperte ed era certo di poter fare grandi passi in avanti cambiando approccio, selezionando molto bene gli interventi, concentrandosi in singole operazioni di riconquista e messa in sicurezza di territori circoscritti, dove poi investire le risorse a disposizione per ricostruire le comunità. Il progetto era ambizioso e brillante, sulla carta”.

 Ma, come un personaggio della tragedia classica, McChrystal dimostrò di essere accecato dalla hybris...

“Sì. Era convinto di poter gestire la situazione in totale autonomia; che i suoi piani, così apparentemente solidi, fossero perfetti. Di non aver alcun bisogno di mantenere stretti contatti con la propria leadership politica – che nel frattempo era cambiata, visto che Barack Obama si era da poco insediato alla Casa Bianca. Di fatto, i suoi risultati furono scarsissimi. Si era convinto di poter applicare in un territorio contraddistinto da profonde differenze locali un modello esportabile e valido ovunque, quello che venne definito ‘a government in a box’, un ‘governo in scatola di montaggio’. Sconfitte le forze talebane in una provincia, l’amministrazione pubblica andava ricostruita, insieme a una polizia locale: temporaneamente protette dalle armi occidentali, le comunità si sarebbero così rimesse in piedi, gestite autonomamente e trasformate in oasi pacifiche e democratiche. L’esperimento a Marjah (operazione Moshtarak) fu un fiasco, e molto costoso. I talebani semplicemente non accettarono lo scontro, diedero il via a un’ondata di rappresaglie con chi collaborava con la NATO, le cui truppe contarono un numero molto alto di perdite nel tentativo di mantenere la sicurezza. Nonostante le vittorie tattiche, e l’iniziale successo in alcuni villaggi, la dottrina McChrystal semplicemente non aveva speranza in una realtà frantumata come quella afghana, dove per garantire la ‘bolla di sicurezza’ il nemico va cacciato valle per valle, distretto per distretto. Sarebbe forse troppo semplicistico sostenere che in Afghanistan non esistesse alcuna possibilità di costruire l’impalcatura di uno Stato moderno (alla metà degli anni Settanta, in realtà, ci si era molto vicini). Ma l’infinita guerra civile seguita all’invasione sovietica ha disgregato radicalmente la regione, concedendo il potere a una miriade di warlordsdivisi su tutto e permanentemente in guerra tra di loro. La stessa convinzione che sia mai esistito un ‘fronte unito’ della resistenza antisovietica è un mito politico. Questa frantumazione esasperata non venne tenuta debitamente in conto dagli americani, e McChrystal pagò il prezzo di un atteggiamento generalmente molto superficiale. Il suo licenziamento finale, dopo un rovinoso articolo pubblicato su Rolling Stone in cui criticava rozzamente l’amministrazione Obama, fu la semplice sanzione finale della sua incapacità di tradurre concretamente in azioni efficaci sul campo delle teorie valide solo in astratto”. 

‘Dal punto di vista militare abbiamo vinto’, dice un alto ufficiale italiano che citi all’inizio del tuo volume. Qual è stato il livello di coinvolgimento politico, militare e mediatico dell’Italia? 

“Dopo la rapida vittoria sul campo statunitense, nell’inverno 2001-2002, gli europei decisero di accodarsi all’impresa: in parte per sfruttare, senza rischi, un successo già ottenuto, in parte ancora maggiore per dimostrare che la NATO restava un’alleanza vitale e solidale. L’Italia è entrata a far parte della missione ISAF non certo per mostrare soltanto la bandiera e restare ai margini delle operazioni. L’impegno è stato molto rilevante. Il contingente italiano ha superato i 3.000 uomini (il quarto, o quinto a seconda dei momenti, tra tutte le forze dispiegate nel Paese), ha avuto la responsabilità del cosiddetto RC-West(il  ‘comando della regione ovest’, comprendente la provincia di Herat) e tra 2005 e 2006 è stato un generale italiano, Mauro Del Vecchio, a guidare l’intera coalizione NATO. Non da ultimo, è stata una delle operazioni più costose in termini di vite umane: oltre 50 militari italiani hanno perso la vita in Afghanistan, la maggioranza in seguito ad attentati e in scontri a fuoco. Da un punto di vista politico, credo che le ragioni di questo oneroso impegno siano da ricercarsi nella seduzione della visibilità internazionale che la partecipazione a ISAF avrebbe comportato: non più un ruolo di secondo piano per le forze italiane, ma una posizione centrale in seno alla più importante missione internazionale della NATO. In definitiva, al governo di Roma venne chiesto un investimento economico, logistico e operativo davvero notevole per le risorse dell’Esercito italiano dell’epoca, in cambio di un ritorno mediatico apparentemente brillante”.

Su questo aspetto mi pare si possano avere dei dubbi. A netto di alcune occasioni saltuarie (normalmente legate ai rimpatri delle salme), la comunicazione sul ruolo delle forze italiane in Afghanistan è stata alquanto rarefatta, per usare un eufemismo. L’ultimo frutto della demilitarizzazione culturale post 1945, della paura di raccontare una guerra? 

“Sì. Si è avuto paura di comunicare la realtà di questo impegno all’opinione pubblica. Un atteggiamento schizofrenico, se si pensa non solo alle dimensioni del coinvolgimento militare nazionale, ma anche a quanto l’esperienza afghana ha significato per i militari italiani. Èstato un lungo momento di grande crescita professionale, in tutti i sensi, e il personale impiegato nel Paese, dagli ufficiali ai volontari di truppa, si è comportato molto bene. Non solo dal punto di vista dell’assistenza umanitaria alla popolazione civile. Lo so, mediaticamente ha pagato moto di più l’immagine sorridente dei soldati che distribuivano merendine, ma la verità è che nelle operazioni su vasta scala come nei pericoli di tutti i giorni (e ce ne sono stati parecchi) i militari italiani si sono dimostrati professionisti tranquilli, dotati di sangue freddo, disposti a correre rischi fino all’ultimo, facendo ricorso solo in casi estremi all’uso della forza, ma dimostrandosi comunque combattenti solidi quando c’era da combattere.  Come mi ha detto un colonnello con una lunga esperienza operativa nel Paese asiatico, possiamo senz’altro affermare che il nostro esercito del terzo millennio è nato in Afghanistan, come quello nazionale del XX secolo si è formato nelle trincee della Grande Guerra. I nostri soldati hanno fatto il loro dovere e l’hanno fatto bene, anche se in Italia se ne è parlato poco”.

marco mondini

MARCO MONDINI

Insegna History of conflicts al Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali ed è ricercatore associato all’UMR Sirice (CNRS – Paris Sorbonne). Dopo aver studiato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, ha collaborato con l’ENS di Parigi, l’università di Lille 3 “Charles de Gaulle”, l’università di Paris Diderot e l’Istituto Storico Italo Germanico di Trento, dove ha diretto l’unità di ricerca “La prima guerra mondiale”. È specializzato in storia della guerra in età contemporanea, tema su cui ha scritto o curato una ventina di volumi: tra i più recenti Fiume 1919. Una guerra civile italiana (2019), Il Capo. La Grande guerra del generale Luigi Cadorna (2017, premio nazionale “Friuli Storia”), La guerra come apocalisse (2016), La guerra italiana. Partire, raccontare, tornare (1914-1918) (2014), Narrating War. Early Modern and Contemporary Perspectives (con M. Rospocher, 2013). Fa parte del direttivo del Centre International de Recherche dell’Historial de la Grande Guerre ed è editor della sezione italiana di 1914-1918 online. The International Encyclopedia of the First World War.

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