Capolavoro nostalgico? Epopea degli umili? Elegantissima strizzata d’occhio a un pubblico avido di buoni sentimenti e drammi familiari dal copione consunto? Comunque la si pensi, Roma, il film di Alfonso Cuarón distribuito da Netflix, ha segnato un punto di non ritorno non solo per i processi di distribuzione cinematografica, ma per il nostro stesso modo di intendere, e definire, cos’è il cinema. La questione è nota: Netflix, il colosso americano dello streaming, ha avviato una politica di forti investimenti nella produzione e distribuzione del cinema d’autore. La strategia prevede l’accreditamento e il successo nei principali festival cinematografici. Il problema è che Netflix guarda al proprio business, che non contempla lo scopo fondamentale dell’esperienza cinematografica come è stata vissuta negli ultimi centoventi anni o giù di lì: la visione dei film al cinema. Un rapporto simbiotico già rivoluzionato con l’arrivo della televisione, la massiccia trasmissione sul piccolo schermo di opere nate per il cinema e, in parallelo, lo sviluppo della fiction nata direttamente per la tv. I successivi sviluppi tecnologici, dalle videocassette ai dvd, dall’offerta sempre più massiccia di film nei canali tematici a pagamento fino all’esplosione dello streaming, hanno reso il passaggio nelle sale soltanto un tassello di una lunghissima catena di sfruttamento delle opere cinematografiche.
Ora, però, siamo allo strappo finale: all’ultima Mostra del Cinema di Venezia sono state ammesse in concorso opere, prodotte e/o distribuite da Netflix, che nascono prescindendo completamente dalla loro programmazione nelle sale, dal momento che gli utenti mondiali della società californiana utilizzano, per fruire dei contenuti, la televisione (70% delle ore scaricate), il computer (15%), lo smartphone (10%) e il tablet (5%). Roma, dunque, è il primo caso di film che si aggiudica alcuni tra i maggiori riconoscimenti mondiali (il Leone d’Oro a Venezia, la nomination all’Oscar come miglior titolo straniero) senza una regolare programmazione sul grande schermo. Proprio per rispondere alle critiche, la compagnia ha cambiato strategia in corsa, promuovendo una limitata distribuzione “last minute” nelle sale: il pugno di cinema inizialmente previsti è aumentato a 600 in 40 Paesi. Ma dal 14 dicembre l’opera è scaricabile gratis per tutti i 137 milioni di abbonati Netflix nel mondo (dato di settembre 2018). E quasi ovunque il film è uscito in sala contemporaneamente, o pochissimi giorni prima, rispetto al lancio in streaming.
In Italia Roma ha debuttato in una sessantina di sale dal 3 al 5 dicembre, distribuito dalla Cineteca di Bologna: la politica di Netflix impone il segreto sugli incassi ottenuti, ma è presumibile che sia andato abbastanza bene, perché la tre giorni iniziale ha avuto un proseguimento che, a giorni alterni, ha mantenuto il film su un dignitoso numero di schermi (una quarantina) fino al 19 dicembre, per limitare infine la presenza a una manciata di sale superstiti. Non si tratta, comunque, di una tregua tra Netflix e i gestori dei cinema: le associazioni degli esercenti sono in guerra, e gli schermi disponibili sono quelli di proprietari “ribelli” oppure, in alcuni casi, vengono noleggiati dalla stessa Netflix. È certo uno scontro tra rappresentanti di interessi opposti, anche se molti addetti ai lavori plaudono alla capacità di Netflix di portare il cinema, anche d’autore, a pubblici di tutto il mondo. Ma il punto è: dobbiamo abituarci all’idea che il concetto di cinema si dissolva per sempre in quello di prodotto audiovisivo, rendendo residuale (e opzionale) l’esperienza della sala? In Francia non ci stanno: Cannes ha rifiutato i film di Netflix perché non accettano il lungo passaggio esclusivo sul grande schermo richiesto dalla normativa transalpina (che pure è oggetto di riforma in questi mesi). Tra l’altro proprio Roma rappresenta, oltre che una rivoluzione nei processi industriali del cinema, un paradosso in sé: perché, comunque lo si giudichi, è innegabile che il film di Cuarón risplenda di una raffinata fotografia in bianco e nero che, unita alla perfezione degli scenari e degli ambienti ricostruiti, lo rende un’esperienza visiva sublime (estetizzante?), che un micro-schermo non può non annichilire. Così, il film-bandiera del possibile assassinio del cinema in sala diventa, curiosamente, la negazione di se stesso.
Intanto in Italia, dopo le polemiche seguite alla Mostra veneziana, il ministro Bonisoli ha emanato un decreto che regolamenta la distribuzione dei soli film italiani, stabilendo, per le opere che aspirano a finanziamenti pubblici, l’obbligo di rispettare un intervallo prestabilito tra il debutto nelle sale e la disponibilità su altre piattaforme. Sono 105 giorni, ridotti però a 60 se il film viene programmato in meno di 80 schermi e ottiene meno di 50mila spettatori nelle prime tre settimane di programmazione. Nel caso dei film-evento programmati al massimo per tre giorni diversi dal weekend (come accade per certi documentari o per le versioni cinematografiche di concerti e spettacoli teatrali), l’intervallo è limitato a 10 giorni. Perché un film italiano possa accedere ai fondi pubblici, viene stabilito anche che debba essere programmato in sala almeno per sessanta spettacoli nell’arco di tre mesi (ma per i documentari bastano quindici spettacoli).
Sono contromisure sufficienti a tutelare i gestori delle sale? Agendo per decreto, ed evitando di promuovere un più complesso disegno di legge, il ministro si è limitato a formalizzare un vincolo (peraltro già rispettato nella prassi) che riguarda, dicevamo, le sole opere italiane. Se si ritiene, come in Francia, che la visione dei film in sala sia una modalità irrinunciabile per l’esperienza cinematografica, e che questa venga seriamente minacciata dal modello Netflix, è impensabile non estendere il periodo di esclusiva alle pellicole straniere, che assorbono i tre quarti degli incassi nelle sale del nostro Paese. Se invece si vuol credere che il popolo dei cinefili continuerà ad accorrere nelle sale, pagando, anziché godersi lo stesso film, nello stesso giorno di uscita, gratis (o pagando il costo dell'abbonamento a Netflix, perlomeno) a casa propria, su uno schermo grande come un foglio da disegno o un post-it, lasciamo tutto così. E prepariamoci al grande salto estetico: dalla panoramica al francobollo.