Il Monveso di Forzo. Foto: Francesco Sisti/Flickr
Trasformare il Monveso di Forzo, una delle cime delle Alpi Graie, al confine tra il Piemonte e la Val d’Aosta, in una montagna sacra: è questa la provocatoria iniziativa promossa da alcuni membri del consiglio del Parco Nazionale del Gran Paradiso, del quale il Monveso fa parte, in occasione del centesimo anniversario della fondazione del Parco – il primo in Italia, istituito un secolo fa.
La proposta, secondo gli animatori del progetto, ha uno scopo semplice, ma profondamente significativo, che consiste nel «capovolge[re] i modelli culturali: da no-limits a off-limits», come si legge nel Manifesto. Perché «non tutto quello che siamo in grado di fare deve essere fatto. Non tutte le montagne che siamo in grado di salire devono essere scalate (conquistate). Per una volta, in un luogo almeno, può prevalere l’idea dell’astensione. Astenersi non significa necessariamente privarsi. In questo caso, l’astensione, più che togliere, regala qualcosa».
Dunque, un progetto carico di significati, e di grande valore soprattutto per riflettere su alcuni dei grandi temi sullo sfondo dei quali si staglia l’Antropocene: il rapporto tra uomo e natura, il concetto di limite, la velleità di sfruttamento e conquista, tipica della nostra società.
Eppure, un simile progetto desta inevitabilmente – proprio per la sua originalità, almeno nel contesto culturale europeo – alcune perplessità. Prima di tutto intorno all’adozione del concetto di sacro, che suona alle nostre orecchie carico di significati trascendenti, religiosi, e che difficilmente viene associato al mondo naturale.
Il Consiglio d’amministrazione del Parco Nazionale del Gran Paradiso ha rifiutato di far propria l’iniziativa. Altrettanto restii si sono mostrati, per ora, i comuni che insistono sulla montagna prescelta. In fondo, forse, tale ritrosia istituzionale è una conferma dell’importanza di portare avanti un’idea così fuori dal comune: un rinnovamento culturale è necessario, e per far sì che questo si realizzi bisogna puntare sulla riflessione condivisa, sul dialogo, sull’educazione.
Il ruolo dell’educazione e della condivisione è enfatizzato anche da Serenella Iovino, professoressa ordinaria di Italian Studies e Environmental Humanities alla University of North Carolina di Chapel Hill, negli Stati Uniti. Istituire una montagna sacra, tuttavia – riflette la professoressa – potrebbe inavvertitamente rivelarsi un passo nella direzione opposta.
L'intervista completa a Serenella Iovino. Servizio di Sofia Belardinelli, montaggio di Barbara Paknazar
«La proposta avanzata per il Monveso di Forzo mi ricorda l’approccio del naturalista statunitense John Muir, fondatore del ben noto Sierra Club, uomo il cui instancabile lavoro in favore della conservazione della natura ha portato all’istituzione dei primi parchi nazionali. Nella filosofia di Muir, alcuni concetti cardine sono la conservazione e la preservazione del mondo naturale. Si tratta, però, di un discorso ancipite: per Muir, infatti, la wilderness è talmente sacra da essere considerata, in qualche modo, separata dall’umano. I parchi, le aree protette sono, in questa visione, sì fruibili dagli esseri umani, a patto che essi si comportino come “visitors that not remain”.
«Questo ripropone, a livello teorico, la frattura tra umano e naturale già tipica dell’antropocentrismo. Dunque, nell’atto stesso di consacrare un luogo naturale è insita la possibilità che questa visione sacralizzata della natura riproponga sotto altra forma proprio quel dualismo che si cerca di superare. In particolar modo», prosegue Iovino, «è proprio il ricorso al concetto di sacro che rischia di riproporre con forza questo dualismo: la wilderness, da questa prospettiva, è vista come unica vera essenza della natura, mentre l’uomo ne viene separato; può fruirne, ammirarla, ma non abitarla, né tanto meno farne parte. Rischiamo perciò di imporre un paradigma che anziché avvicinarci, ancora una volta ci allontana dal nostro obiettivo».
Tutto questo, poi, si carica di un’ulteriore ambivalenza se applicato ad un contesto come quello europeo, fortemente secolarizzato, per il quale il ricorso al concetto di sacro in riferimento al mondo naturale è, se non esotico, quanto meno lontano dalla sensibilità comune.
«Nella cultura occidentale – ricorda la professoressa – il sacro è associato a concetti religiosi in cui è evidente l’ambivalenza tra intoccabilità e sacrificabilità. Come scriveva René Girard, il sacro ha un forte legame con la violenza. Quando utilizziamo un simile concetto, dobbiamo tenere a mente che esso richiama molti altri concetti: ad esempio quello di sacerdote, la figura deputata ad amministrare questo sacro, l’unica in grado di mettersi in relazione con esso.
Rendere sacra una montagna, dunque, potrebbe inavvertitamente avallare una lettura quasi antiscientifica della realtà, che naturalizza in maniera eccessiva concetti che, a ben guardare, sono esclusivamente culturali. Parlare di montagna sacra rimanda all’esistenza di un solco incolmabile tra sacro e non-sacro, tra la montagna e chi – l’uomo – è invitato a starne lontano».
Inoltre, vi è un altro elemento che va preso in considerazione: nessun luogo, per quanto isolato, è del tutto autonomo da quel che lo circonda. Ed è il caso anche dei luoghi naturali: ad ognuno di essi è collegato un intero ecosistema, ma anche un mondo culturale e sociale che non può essere ignorato. È importante, perciò, che nell’attuare questo genere di iniziative non si perda di vista la complessità che caratterizza il reale. «L’obiettivo principale – afferma Iovino – dovrebbe essere quello di integrare (anche) culturalmente questi luoghi, piuttosto che elevarli a luoghi sacri e separarli dal resto del tessuto ecologico e sociale. E infine, tornando alla questione dell’ambivalente relazione che il sacro intrattiene con la violenza, dobbiamo riflettere anche sul fatto che laddove si crea un altare, di qualunque sorta, vi sono spesso tante altre zone che diventano sacrificabili, che vengono immolate».
Ma quel che serve agli umani dell’Antropocene è l’esatto opposto: quel che certamente anima questo genere di progetti è il bisogno di riscoprire la nostra intima relazione con il resto della natura. E per fare questo, sottolinea la professoressa, «dobbiamo sforzarci di esaltare la complessità del reale, per riportare al centro la coappartenenza tra umano e natura. La natura non è soltanto qualcosa da recintare, da separare e sacralizzare; della natura facciamo parte anche noi umani, con le nostre molte manifestazioni culturali». E proprio in questo è racchiuso il fascino della complessità, difficile da incanalare in stringenti definizioni e in confini concettuali netti.
Il sacro monte Uluru dell'Uluru-kata Tjuta National Park, in Australia. Foto: Photoholgic/Unsplash
E torniamo, allora, alla centralità della consapevolezza, della condivisione, dell’educazione. Quali sono gli ingredienti per un vero cambiamento di paradigma, per realizzare quel cambiamento trasformativo oggi invocato da più parti?
«La scienza è sicuramente centrale, ma non è sufficiente. Le conoscenze scientifiche sono, certo, un elemento fondamentale per ragionare del rapporto tra umano e non-umano: il supposto dualismo tra questi due “mondi” non esiste né da un punto di vista biologico, né da un punto di vista ontologico. Tuttavia esiste, ed è ben radicato, nelle nostre costruzioni culturali: è allora necessario individuare nella cultura gli strumenti che siano in grado di elaborare questo dualismo e di superarlo.
Ogni atto culturale, anche simbolico, che contribuisca a questa trasformazione e che miri a proteggere ciò che è in pericolo, è, ovviamente, meritorio. Al tempo stesso, non possiamo pensare di “proteggere” la natura anche da chi vuole imparare a conoscerla: per questo non mi preoccuperei di delimitare e chiudere l’accesso alla montagna, seppure simbolicamente», commenta Iovino.
«Temo infatti che vi sia la possibilità che tale iniziativa porti a un maggiore allontanamento, a una separazione resa più profonda dalla mancanza di contatto. Piuttosto, sarebbe importante proteggere da una modalità di fruizione predatoria non soltanto la montagna, ma, allo stesso modo, anche il mondo (naturale e culturale) che la circonda.
Definire “sacro” solo un determinato perimetro, e lasciare quel ne che è fuori alla mercé dello sfruttamento indiscriminato, ad esempio, significa trasformare tutto ciò che è esterno al perimetro di sacralità in una zona di sacrificio. È per questo che, a mio avviso, la proposta tradisce alcune problematicità. Per non parlare del fatto che – come abbiamo già ricordato – laddove c’è sacro, c’è anche una classe di sacerdoti, cioè una classe di persone atta a mediare una separazione ritenuta incolmabile. Invece noi, oggi, non abbiamo bisogno di sacerdoti che medino questa separazione, ma di maestri che la colmino», e che ci insegnino a guardare oltre questo solco, la cui esistenza permane solo nella nostra mente.
E se proprio abbiamo bisogno di sacralità per legittimare le nostre azioni, e per dare senso alla realtà che ci circonda, che almeno sia una sacralità tangibile: immanente, non trascendente. «Se c’è un sacro, se c’è un miracolo, questo è dappertutto ed è sempre», afferma Serenella Iovino, definendosi seguace di Spinoza in questa ricerca di immanenza. «Ciò di cui abbiamo oggi bisogno, per recuperare coscienza della nostra appartenenza alla natura, non è la trascendenza, tipica di una sacralità localizzata, recintata, amministrata, ma l’immanenza. Dobbiamo riconoscere, proprio in virtù di questa parentela, di questa coappartenenza tra noi e il resto del mondo naturale, che – come scriveva Anna Maria Ortese – è sacra la Terra ed è sacro anche l’uomo, sua parte».