SOCIETÀ

Storie di sport: i pionieri della palla ovale

Se i primi incontri organizzati in Italia si tengono a Torino il 27 e 28 marzo 1910, con i ginevrini del Servette chiamati ad affrontare gli studenti dello Sporting club universitaire de France, e la prima squadra italiana a scendere in campo l’anno successivo è l’Unione sportiva Milanese contro i francesi dell’Union athletique Voirronnais, già alla fine dell'Ottocento il rugby spunta tra le pagine di un manuale di ginnastica: l'insegnante di educazione fisica Daniele Marchetti lo cita infatti in Salute e forza. I giuochi ginnastici nelle scuole del 1892. Il docente vicentino pubblica il testo a proprie spese e si rivolge a “ogni ceto di persone” e in particolare ai colleghi, gli insegnanti degli istituti del Regno, affinché questi ultimi possano sfruttare i suoi consigli “nelle scuole, nei collegi, nei ricreatori, nelle palestre marziali, nell’esercito […] ovunque si raccolgono giovani e fanciulle”. Marchetti sottolinea l'importanza di un’adeguata robustezza, che “vale molta salute unita a una soddisfacente quantità di forza e di energia". 

A rintracciare questa e altre citazioni - preludio dell’interesse crescente per un sport entusiasmante, oggi più che mai sotto i riflettori grazie ai successi dell’Italia all’ultimo Sei Nazioni - è Elvis Lucchese, autore del saggio Pionieri. Le origini del rugby in Italia, 1910-1945 (Piazza editore), un’accurata ricognizione storica della prima metà del secolo scorso che parte, appunto, un po’ prima, dalla fine dell'Ottocento. Oltre al manuale, altri seppur vaghi riferimenti si ritrovano qua e là distribuiti in alcuni testi in cui inizialmente si confondono le discipline: parliamo di calcio o di rugby? Scrive Lucchese: "Il primo regolamento di calcio in lingua italiana, pubblicato nel 1892 a Udine, indicava a proposito della palla che giuocatori possono prenderla con le mani e portarla via di corsa per il campo e in un’illustrazione dal vivo di Achille Beltrame per La Domenica del Corriere del 1902 il confronto fra atleti milanesi e torinesi, visto con gli occhi di oggi, sembrerebbe pertenere al rugby, pur trattandosi di giuoco del calcio. Ambiguità ancor più accentuata in una copertina del 1910 di un’altra rivista generalista che raffigurerebbe una partita a Roma, opera di seconda mano calcata da un modello straniero. Echi di pratica nella capitale a inizio secolo, comunque, circolavano ancora negli anni Trenta, quando si poteva leggere che il primo esperimento nazionale di rugby risalirebbe al 1905 o 1906, quando (…) propagandarono il giuoco tra gli atleti della Lazio e quelli della Virtus. Ipotesi non verificata ma verosimile". Una cosa è certa: dopo la curiosità dimostrata negli anni Dieci, la passione per il rugby si affievolisce per poi riaccendersi in epoca fascista.

Quando si gioca la palla ovale [...] la si ama per tutta la vita di una passione tale che nessun altro sport può far nascere Manfredo Adriano Paolillo, giovane rugbista catanese, 1935

Pionieri è un viaggio nel tempo e racconta storie sconosciute e appassionanti inserite nel quadro di una Storia più grande (complessa e drammatica, perché qui il Ventennio è compreso, anzi centrale): è una lettura agile ma densa, ben documentata, ricca di aneddoti, vite passate e passaggi, esperienze di atleti, insegnanti, giornalisti, visionari alle prese con uno sport nuovo e affascinante, di tradizione inglese e modello francese, da trasformare lentamente e con fiducia in qualcosa di personale, riconoscibile, familiare. Sono tante le voci e le vicende raccolte, arrivano da un tempo lontano, più o meno un secolo fa, a volte di più.

Il 3 maggio 1934 il giovane rugbista catanese Manfredo Adriano Paolillo scende in campo ai Littoriali di Milano, gioca con i Giovani universitari fascisti. Sotto la pioggia, la sua squadra sfida una formazione di Pisa. Il match dura quasi tre ore giungendo al quinto tempo supplementare fino alla vittoria finale dei pisani con un punteggio di 3 a 0. I giocatori sono sfiniti, il risultato lascia l'amaro in bocca ai siciliani che escono dal campo stanchi e delusi. Sono anni in cui questo sport cerca di farsi spazio, e non è così semplice, "perché - scrive Lucchese - ci voleva una smisurata passione per giocare a rugby. Era sì [...] patrocinato dal regime e ben inserito nelle organizzazioni giovanili e militari, ma cimentarvisi significava comunque incontrare difficoltà di ogni sorta e soprattutto, in un mondo ben lungi dall’essere globale, sfondare una coriacea barriera culturale verso una disciplina del tutto nuova ed estranea alla tradizione. Ciò che i rugbisti avrebbero dovuto fare sempre, in fondo in alcuni territori di confine lo fanno anche oggi, ma certo non ha confronti la severità del compito di questi pionieri degli anni Venti e Trenta". Ma torniamo al giovane Paolillo: superata la delusione per la sconfitta, un anno dopo, in lui resta solo una certezza. Nel giornale cittadino Il Lunedì, scrive: "Quando si gioca la palla ovale, può dirlo chi l'ha giocata, la si ama per tutta la vita di una passione tale che nessun altro sport può far nascere". Partendo da questa breve memoria, con l’intenzione di ritrovarne molte altre, su Il Bo Live, l'intervista a Elvis Lucchese, storico dello sport e giornalista. 

Come si è svolto il lavoro di ricerca per Pionieri?

"Non sono stato il primo a scavare per cercare le radici del rugby, ma ad oggi i lavori precedenti risultano un po' datati e lo sguardo dei giornalisti che se ne sono occupati prima di me non era storico. Io ho una formazione da storico e quindi ho applicato un metodo. Quando si fa ricerca è importante aggiungere sempre qualcosa a quel che è già stato fatto. Un grande aiuto ovviamente è arrivato dalla tecnologia, oggi infatti si può fare ricerca più facilmente rispetto a un tempo: il giornalista Luciano Ravagnani (autore con Pierluigi Fadda di una Storia del rugby dalle origini ad oggi, 1991, ndr), non aveva a disposizione archivi digitali come quello per esempio della Biblioteca di Francia, che permette di scansionare cinquant'anni di giornali inserendo una solo parola chiave. Infine, considerando che questo testo nasce all'interno di un progetto della Fir - Federazione italiana rugby, sento di dover rispettare un mandato, o quello che io ho inteso come tale: fare divulgazione attraverso un racconto delle origini del rugby per renderlo accessibile, ma usando un certo rigore, ovvero verificando accuratamente le fonti e lasciando perciò da parte il cosiddetto sentito dire".

Hai riscontrato particolari difficoltà o resistenze durante l'indagine?

"Le fonti sono scarse. La stessa Federazione italiana rugby non ha conservato molto della sua storia e la questione si complica se pensiamo che questi sono gli anni del fascismo. Da queste poche fonti, però, lo storico può imbastire un lavoro artigianale: un esempio, per scoprire alcune date di nascita di giocatori della prima ora, sono andato a cercare i loro nomi al Cimitero monumentale di Milano o al Verano di Roma. Per molti di loro, soprattutto per quelli che venivano dalle classi popolari, le uniche fonti restano i fogli matricolari, niente di più".

Arriviamo alla comparsa del rugby nel 1910, a Torino, e l’anno successivo a Milano. Gli esordi piemontesi e lombardi smontano qualche certezza: il rugby delle origini non è legato al Veneto, come invece verrebbe da pensare.

"Per arrivare in Veneto ci vorrà del tempo. Consideriamo però che, all'inizio, la storia del rugby è, più in generale, la storia di tanti altri sport - calcio su tutti - che si sviluppano nel triangolo Genova, Torino, Milano: la parte che poteva dedicarsi allo sport all'inizio del secolo scorso perché, in altre zone più arretrate, non c'era neanche la cornice sociale per poterci pensare, tanto meno dedicare. Come prevedibile, il rugby entra in Italia filtrando dalla Francia attraverso Torino e Milano. Il Veneto ci arriva un po' più tardi, con l'eccezione di Rovigo che, nonostante la marginalità, si prende subito una sbornia di rugby. E questo succede anche a L'Aquila e Parma, città che si appassionano subito. Sicuramente, però, prima di assumere una vera e propria dimensione regionale passerà molto tempo, parliamo degli anni Sessanta". 

Il rugby del passato custodisce una sorta di follia poetica Elvis Lucchese

Tra gli anni Venti e Trenta del Novecento il rugby è giocato dagli universitari e diventa ben presto sport gradito al fascismo.

"Sì, agli esordi, il rugby è sport universitario. Nel Ventennio è gradito al fascismo: in particolare, piace a Starace. Non sorprende, ovviamente, perché le caratteristiche legate alla fisicità del rugby, alla coralità e al controllo degli impulsi risuonano con certe idee dell'uomo nuovo fascista. Viene dato un impulso netto dall'alto affinché il rugby si sviluppi, e questo impulso viene percepito quasi come un obbligo in uno Stato totalitario. In quegli anni, poi, si sviluppano visioni differenti, da una parte vi è quella elitaria e carica di significato degli universitari che ne fanno uno sport da aristocratici, influenzati anche dagli echi inglesi dove questo sport si gioca dapprima tra le classi alte. E dall'altra parte, ci sono esperienze che partono dal basso e si confrontano e scontrano con questa prima visione: per esempio, quello di Rovigo è un rugby con un'anima diversa, è un rugby di riscatto e orgoglio cittadino".

A questa visione elitaria si lega anche la regola del dilettantismo?

"Il rugby nasce in un contesto upper class britannico e, lì, a risolvere la questione legata al dilettantismo, ci pensa il rugby a tredici, che parte già professionistico. Quindi, in Inghilterra, fin dalla fine dell'Ottocento, il problema viene risolto così: chi vuole guadagnare, sceglie il rugby a tredici e si sposta nel Nord del Paese, gli aristocratici delle università invece continuano a giocare il rugby a quindici e, mantenendo un estremo rigore, non percepiscono denaro. In una lettera degli anni Cinquanta la Federazione italiana chiede a quella inglese di inviare un allenatore ma dall’Inghilterra arriva una risposta secca: un allenatore pagato è inconcepibile, noi restiamo dilettanti".

Si tratta di un principio fondante, alla base di questo sport, superato solo negli anni Novanta con l'avvento del professionismo. Dunque ti chiedo, considerata anche la lettera che fa indignare gli inglesi, in Italia questa regola viene applicata con lo stesso rigore?

"La situazione italiana è ambigua. Fughe fuori dal dilettantismo ci sono fin dall'inizio perché, pur riconoscendo il modello del rugby britannico, in Italia è forte l'influenza del calcio. Ai primi rugbisti italiani sembra giusto chiamare allenatori dall'estero per poter imparare questo sport, del resto il calcio da noi è diventato grande grazie agli allenatori stranieri della Mitteleuropa. Fino agli anni Ottanta il rugby inglese non ha un campionato, in Italia invece ci si organizza subito in tal senso, copiando il modello francese e, appunto, l’esempio del calcio”.

Calcio che resta l’antagonista, considerato agli antipodi per spirito e visione.

"Il rugby nasce come sport di nicchia e c'è da dire che, ancora oggi, a una parte dei rugbisti piace questa idea, quella cioè che lo descrive come una disciplina per pochi a differenza del calcio, sport per la massa. Questo pensiero emerge già dalle pagine di alcuni giornali degli anni Venti e Trenta del Novecento".

Tra influenze inglesi e modello francese, si può parlare di un rugby all'italiana fin dagli esordi?

"Il rugby all'italiana è il rugby degli italiani, che forse c'è stato sempre o non c'è stato mai. Il nostro è un Paese debole nel mondo ovale, senza dubbio dominato da altre culture, più forti. Non bisogna però vergognarsi del modo in cui è stato declinato in Italia".

Tra le storie contenute nel libro ce ne sono alcune, con anime e destini diversi, che ti piace raccontare?

"Sono tutte vite appassionanti. Tra le tante scelgo quella di Domenico Dondana, primo capitano della Nazionale. Di lui si sa quasi niente, solo scavando sono riuscito a scoprire qualcosa: nato ad Aosta, di mestiere fa l'elettricista, nel mondo del rugby è un operaio tra ricchissimi privilegiati. Emigra a Torino e poi va in Francia. Quando torna in Italia è tra i pochi ad aver praticato questo nuovo sport e proprio per questo, a 38 anni, viene nominato capitano della Nazionale. Un operaio alla guida di una squadra formata da studenti universitari viziatissimi, mi pare una bella storia. Un'altra, curiosa e nascosta, è quella di Giuseppe Levi, segretario della Federazione italiana rugby, l'unico professionista del rugby in epoca fascista, per cinque anni stipendiato dal Coni. Fervente fascista, Levi è però di discendenza ebraica e nel 1938 è costretto ad abbandonare il suo ruolo. La sua storia è ancora tutta da scoprire, ma si sa che va in Africa orientale, in Etiopia, salvandosi probabilmente da un destino peggiore: l'aspetto singolare è che resta fascista fino alla morte. Senza giudizio, credo sia un percorso biografico insolito. Nella storia del rugby, non si è mai parlato di lui. E ancora, ho scoperto le storie di tre azzurri che poi sono diventati partigiani: il bolognese Fernando Trebbi e i milanesi Piero Romano ed Enrico Allevi. Anche di loro non si è mai parlato, quindi mi ha fatto piacere rintracciarne le vicende di rugby e Resistenza. Infine, c'è la storia del padovano Giuseppe Visentin, alfiere in Nazionale di una regione che diventerà la roccaforte del rugby. Viene ingaggiato dall'Amatori che gli offre un posto di operaio alla Chatillon: una sorta di professionismo, per i tempi. La curiosità è che per gli strascichi del caso Vinci, Visentin risulta anche il primo e unico azzurro radiato dalla Fir. Fortunatamente viene poi graziato, in tempo per vincere il primo scudetto del dopoguerra".

Quali gli stereotipi legati al mondo della palla ovale? Sfatiamo qualche mito.

"Nel racconto del rugby è facile cavalcare gli stereotipi. Non è quello che interessa a me. Io adoro questo mondo ma ci tengo a mantenere uno sguardo critico, perché non lo ritengo un paradiso di santi ed eroi. È fatto di amicizia e divertimento, ma non è l'unico sport con queste caratteristiche e temo che, a volte, un atteggiamento snobistico possa rendere il mondo della palla ovale un po' antipatico. A me viene l'orticaria quando lo sento descrivere come lo sport dei gentiluomini, cosa significa esattamente? Si tratta, oltretutto, di una visione piuttosto recente. La verità è che, come altri universi sportivi, è bello, ricco, con mille sfaccettature, per questo io lo amo profondamente. Ho cominciato a seguirlo e a occuparmene come giornalista quando c'era il dilettantismo, e subito mi è sembrato, oltre che divertente, anche splendidamente letterario, popolato da tanti Gargantua e Pantagruel. Un fatto realmente accaduto: ho intervistato il capitano della Nazionale, un caldaista, mentre, in tuta, faceva una riparazione. È stato fantastico. Il rugby del passato custodisce una sorta di follia poetica. Oggi si è un po' appiattito, ma probabilmente lo vedo così perché sto diventando vecchio: vero però che, con il professionismo, questi ragazzi non fanno altro che giocare a rugby e, forse, proprio per questo, hanno molto da dire sulle questioni del campo e meno sulle vicende della vita". 

Arriverà un secondo libro per raccontare il lungo periodo dal 1945 a oggi?

"Sì, ma si tratta di un lavoro più complesso, ci sto lavorando e ci vorrà tempo. Da storico, oltre alla raccolta di date e informazioni, sento di dover fare uno sforzo di interpretazione per offrire una lettura. Si tratta di storia sociale dello sport, io penso di doverla raccontare così, offrendo una visione sul materiale raccolto: spero di riuscire a chiudere il lavoro in tempo per il centenario della Federazione del 2028".

Nel racconto del rugby è facile cavalcare gli stereotipi. Non è quello che interessa a me. Io adoro questo mondo ma ci tengo a mantenere uno sguardo critico, perché non lo ritengo un paradiso di santi ed eroi Elvis Lucchese

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