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“In India i pazienti affetti da tubercolosi si trovano nella stessa situazione in cui si trovavano i pazienti sudafricani a cui è stato diagnosticato l'Hiv/Aids negli anni Novanta: l’epidemia è al suo apice e i farmaci non sono disponibili… La tubercolosi è diventata una malattia del XXI secolo che viene combattuta con strumenti (per la maggior parte) del XIX secolo”. Dopo anni di lavoro Vidya Krishnan, giornalista indiana che si occupa principalmente di salute, dà alle stampe The Phantom Plague. How tuberculosis shaped history, un libro che Heidi Ledford su Nature definisce uno sguardo potente sui determinanti della salute. Krishnan si concentra sul caso indiano, mettendo in evidenza le forze che mantengono il Paese in balia della tubercolosi, ma la sua indagine consente di allargare lo sguardo alle regioni più povere del mondo dove la malattia rappresenta ancora un problema dilagante. Dell’argomento abbiamo parlato con Mario C.B. Raviglione, docente di Salute globale all’Università degli Studi di Milano La Statale, cofondatore del Centre for Multidisciplinary Research in Health Science, e direttore del Programma globale tubercolosi all’Organizzazione mondiale della Sanità dal 2003 al 2017.
I Paesi ad alto carico di tubercolosi
La tubercolosi è una malattia trasmissibile causata dal Mycobacterium tuberculosis, che si diffonde quando le persone malate espellono i batteri nell’aria (ad esempio tossendo). Circa un quarto della popolazione mondiale è infetto da M. tuberculosis (ma solo una piccola percentuale di queste persone contrae la malattia nel corso della propria vita). Si tratta tuttavia di una patologia curabile e prevenibile: circa l’85% delle persone che sviluppano la tubercolosi può essere trattato con successo con un regime farmacologico di sei mesi, mentre per trattare l’infezione latente si possono usare oggi regimi anche solo di 1-3 mesi. Non tutti i Paesi a livello mondiale, tuttavia, hanno uguale accesso a diagnosi e terapie.
“La situazione globale è sostanzialmente stagnante – sottolinea Raviglione –. Negli ultimi 20 anni l’incidenza è calata, ma in media solo circa dell’1,5% dal 2000 in poi. La riduzione quindi è molto lenta, limitata. La mortalità, invece, ha avuto una riduzione del 3-4% all’anno e ciò sta a indicare che gli sforzi fatti nei vari Paesi hanno avuto un impatto”.
Nel 2020 la pandemia da Covid-19 non è stata priva di conseguenze su questo trend, con differenze significative nelle diverse parti del mondo. Stando ai dati riferiti dal Global tuberculosis report 2021, a livello globale si stima che siano state 9,9 milioni le persone che si sono ammalate di tubercolosi nel 2020, pari a 127 casi per 100.000 abitanti (il tasso di incidenza ha mantenuto il trend del 2019): il 43% dei casi si è verificato nelle regioni dell’Oms del sud-est asiatico, il 25% nelle regioni dell’Africa e il 18% del Pacifico occidentale; quote minori invece nel Mediterraneo orientale, nelle Americhe e in Europa, rispettivamente con l’8,3%, il 3% e il 2,3% dei casi. I 30 Paesi ad alto carico di tubercolosi rappresentano l'86% di tutti i casi incidenti stimati a livello mondiale, e otto di questi Paesi rappresentano i due terzi del totale globale: l’India con il 26% dei casi, la Cina e l’Indonesia con l’8,5% circa, le Filippine con il 6%, il Pakistan con il 5,8%, la Nigeria, il Bangladesh e il Sudafrica rispettivamente con il 4,6%, il 3,6% e il 3,3% dei casi. Se nei Paesi asiatici si rileva il maggior numero di casi (in termini assoluti), i Paesi africani, osserva Raviglione, riportano invece i tassi più elevati di tubercolosi pro-capite, con anche oltre 500 casi per 100.000 abitanti.
L’impatto della pandemia: calo dei casi notificati e aumento della mortalità
L’impatto più evidente sulla tubercolosi della pandemia da Covid-19 è stato un forte calo globale del numero dei casi notificati nel 2020, rispetto al 2019. Dopo un buon aumento tra il 2017 e il 2019, che riflette migliori programmi di diagnosi e notifica, si è registrato un calo del 18% tra il 2019 e il 2020, passando da 7,1 milioni a 5,8 milioni. Le regioni del sud-est asiatico e del Pacifico occidentale hanno rappresentato l’84% della riduzione globale delle notifiche di persone con nuova diagnosi di tubercolosi. I Paesi che hanno contribuito maggiormente al calo globale tra il 2019 e il 2020 sono stati l’India (con il 41%), l’Indonesia (con il 14%), le Filippine (con il 12%) e la Cina (con l’8%).
Le notifiche sono un indicatore della capacità del sistema sanitario di identificare il caso di tubercolosi, di diagnosticarlo e registrarlo, segno che i pazienti sono stati presi in carico dal sistema con diagnosi e terapie standard. Nel 2020 a causa di Covid-19 c’è stato per la prima volta un calo delle notifiche, che fino a quel momento erano state invece in costante aumento, spiega Raviglione. “Le notifiche sono crollate drammaticamente, perché i sistemi sanitari non sono stati più in grado di fare diagnosi con le risorse umane e finanziarie trasferite all’emergenza Covid”.
Tenendo conto che i casi stimati sono stati 9,9 milioni nel 2020, a livello mondiale ci sono stati dunque circa quattro milioni di persone che si sono ammalate di tubercolosi e non hanno ricevuto una diagnosi o, nel caso l’abbiano ricevuta, non l’hanno vista notificata. Ciò accade quando i pazienti si rivolgono al sistema privato in ogni Paese, ma soprattutto in India, in Pakistan, in queste regioni del mondo in particolare. “Il medico privato può fare diagnosi e prescrivere la terapia, ma non notifica i casi e può non seguire necessariamente gli standard dei sistemi nazionali per la gestione del paziente”.
La conseguenza più immediata del forte calo di notifiche è stato l’aumento del numero di persone morte per tubercolosi. A livello globale, nel 2020, si stima siano stati 1,3 milioni i decessi tra le persone sieronegative, in aumento rispetto a 1,2 milioni nel 2019, e altri 214.000 decessi tra le persone sieropositive, in lieve aumento rispetto ai 209.000 del 2019. “Per il 2021 ci attendiamo un aumento dell’incidenza – sottolinea Raviglione –, poiché si vedranno gli effetti delle mancate diagnosi, e quindi della trasmissione agli altri, che si rilevano come nuovi casi di tubercolosi l’anno successivo, mentre la mortalità verosimilmente continuerà ad aumentare. Il quadro, dunque, non è positivo”. E, come abbiamo visto dai dati riferiti dall’Organizzazione mondiale della Sanità e qui riportati, non interessa in misura uguale tutti i Paesi del mondo.
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Tubercolosi, la malattia della povertà
“La tubercolosi è il modello della malattia della povertà, delle fasce più povere della popolazione – argomenta Raviglione –. Molti studi dimostrano che i quintili più bassi dal punto di vista del reddito sono quelli che hanno l’incidenza e la mortalità più alte per tubercolosi. Il fattore povertà è l’ombrello sotto al quale stanno tutti gli altri determinanti sociali che nel caso specifico della tubercolosi sono la sottonutrizione, oppure l’affollamento nelle abitazioni con scarsa igiene: si pensi alle favelas di Rio de Janeiro e alle shanty town in Africa, in cui sette, otto persone vivono nello stesso locale privo magari di finestre”. A incidere è anche l’assenza di educazione, sanitaria in particolare, l’abuso di alcol, di sostanze, il fumo. Nel favorire lo sviluppo della tubercolosi, in Africa ha un peso significativo anche l’Aids, visto che il virus che la causa, l’Hiv, colpisce i linfociti CD4 deputati al controllo di malattie quali la tubercolosi.
Nei Paesi industrializzati, invece, un fattore di cui tener conto è l’immigrazione: di norma il 70-80% dei casi nei Paesi del nord Europa, sottolinea Raviglione, è tra gli immigrati. In queste aree, anche l’uso di farmaci immunosoppressori, come i cortisonici, di certi antireumatici, o di inibitori del TNFα possono contribuire allo sviluppo della patologia in persone che sono state infettate.
L’Organizzazione mondiale della Sanità ha stabilito di porre fine alla tubercolosi a livello globale entro il 2030, come parte degli Obiettivi per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (Sustainable Development Goals). La strada ancora da percorrere, tuttavia, non è breve. Secondo quanto riporta il Global tuberculosis report 2021, la strategia adottata nel 2015 per ridurre il carico di tubercolosi a livello mondiale (The End TB Strategy) non ha raggiunto, ad oggi, gli obiettivi fissati: per il milestone 2020 era stata stabilita una riduzione del 35% del numero dei morti per tubercolosi e del 20% del tasso di incidenza entro il 2020, ma il traguardo non è stato raggiunto nella maggior parte dei Paesi dell’Oms. A livello globale, la riduzione del numero di decessi per tubercolosi tra il 2015 e il 2020 è stata solo del 9,2%. A livello regionale, solo la Regione europea dell’Oms si è avvicinata al traguardo, con una riduzione del 26%. La Regione africana dell’Oms ha visto una riduzione della mortalità del 18%, il Pacifico occidentale del 13%, il Mediterraneo orientale del 6,2%. Nel sud-est asiatico, negli anni considerati, la mortalità è diminuita solo dello 0,19%. A livello mondiale, poi, la riduzione cumulativa del tasso di incidenza di tubercolosi dal 2015 al 2020 è stata dell’11%, poco più della metà del traguardo da raggiungere. Solo la Regione europea dell’Oms ha infatti superato il traguardo del 2020, con una riduzione del 25%, mentre la regione africana si è avvicinata agli obiettivi fissati, con una riduzione del 19%.
Gli investimenti non sono sufficienti
“Sulla carta, tutti i Paesi hanno adottato la Strategia globale – sottolinea Raviglione che ha diretto la definizione del piano dell’Oms –, il problema è che gli investimenti fatti non sono sufficienti nella maggior parte degli Stati. Si stima siano necessari circa 13 miliardi di dollari all’anno, per un controllo efficace della tubercolosi nei Paesi a medio e basso reddito, ma ne sono stati impiegati circa la metà, sei miliardi e mezzo. Se non si investe nei programmi di controllo per garantire l’accesso alla diagnosi e alla terapia, è chiaro che non si riesce a controllare la tubercolosi. Alcuni Paesi ad alta incidenza, come la Cina, in parte anche l’India, hanno adottato sistemi più adeguati di 20-25 anni fa, ma nella maggior parte dei casi non sono state messe a disposizione le risorse necessarie e il deficit di investimenti si ripercuote sulla disponibilità di risorse umane, di mezzi diagnostici rapidi e di farmaci, specie per le forme multi-resistenti di tubercolosi che richiedono medicinali particolari. I governi, in generale, non stanno investendo il necessario, questo è il punto”.
E anche i finanziamenti alla ricerca non sono sufficienti. Si è stimato che siano necessari a livello globale due miliardi di dollari all’anno ma solo la metà è stata investita. Questa cifra, secondo Raviglione, è palesemente insufficiente rispetto alle necessità e per garantire progressi rapidi. “Si investono circa 10-20 miliardi di dollari all’anno per la ricerca sull’Aids, malattia che causa un terzo dei morti provocati dalla tubercolosi. Questo ha portato a progressi notevolissimi e senza precedenti. Occorrerebbero gli stessi investimenti anche per la tubercolosi, ma la sproporzione è evidente. Per la ricerca sulla tubercolosi si dovrebbero investire gli stessi 10-20 miliardi di dollari, e questo permetterebbe di attrarre i migliori ricercatori e di coinvolgere l’industria che di per sé ha scarso interesse a sviluppare farmaci, strumenti per la diagnostica o vaccini, dato che la maggior parte dei casi di tubercolosi si trovano nei Paesi poveri e qui il profitto non si può fare”. Osserva Raviglione: “Le multinazionali del farmaco investono sulle malattie della ricchezza, sulle malattie non trasmissibili dell’anziano, sull’Alzheimer, il colesterolo, l’ipertensione, il diabete. La ricerca per la tubercolosi non si colloca in questo quadro e quindi i finanziamenti vanno incrementati in maniera esponenziale, se si vuole arrivare a ottenere dei diagnostici rapidi, efficaci e soprattutto, a parte i farmaci, un vaccino che alla fine costituirebbe la soluzione migliore. Non ci sono investimenti sufficienti. Per questo, i programmi nazionali sono spesso carenti, incapaci di garantire a tutti l’accesso alle cure, la diagnosi e i farmaci, specie quelli per le forme resistenti di tubercolosi, che sono più costosi e difficili da ottenere”.