SOCIETÀ

La Turchia e i missili che fanno meno notizia

Evidentemente ci sono bombe che fanno meno rumore di altre, raid aerei che escono dai radar delle diplomazie, vittime civili che nemmeno più si calcolano, il tutto condito da un’indifferenza che è ormai diventata moneta di scambio sui tavoli che contano della politica internazionale. Capita così che la Turchia decida di lanciare unilateralmente un’offensiva contro il Kurdistan siriano e iracheno, denominata Claw-Sward (Spada-Artiglio), contro postazioni dei separatisti del Pkk (Partito dei Lavoratori del Kurdistan) e del YPG (la milizia curdo-siriana) per “prevenire gli attacchi terroristici contro la Turchia dal nord dell’Iraq e dalla Siria e per proteggere la sicurezza del confine”. La giustificazione formale del governo di Ankara è che si è trattato di una rappresaglia in seguito all’attentato del 13 novembre scorso a Istanbul (un ordigno esploso in centro, sulla centralissima İstiklal Caddesi: 6 morti, 81 feriti), la cui responsabilità è stata attribuita, sempre unilateralmente, ai guerriglieri del Pkk (ma restano molte ombre, ci torneremo più avanti). Le città più colpite dai raid sono state Kobane, Tel Rifat, Derbysia e Derik.  Secondo il ministro della Difesa turco, Hulusi Akar, «le azioni militari sono state condotte in conformità con il diritto alla legittima difesa ai sensi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite. Sono stati attaccati solo i terroristi e i loro nascondigli, vale a dire rifugi, bunker, grotte, tunnel e magazzini». Notizia smentita dalle testimonianze sul campo: nei raid aerei sarebbero state danneggiate centrali elettriche e infrastrutture, oltre che vite, come sempre, di militari e di civili. A Kobane, la città simbolo che nel 2014 riuscì a sconfiggere i guerriglieri dello Stato Islamico (sostenuti dalla Turchia), i missili turchi hanno colpito il Covid Hospital che stava per essere riconvertito in ospedale pediatrico. E non è finita qui: l’operazione Claw-Sward, come ha avvisato il governo turco, non ha data di scadenza. Il presidente Erdogan è stato esplicito nel minacciare una futura invasione della Siria anche con truppe di terra: «Se qualcuno provoca disordini nel nostro Paese e nelle nostre terre, gliela faremo pagare. Siamo stati sopra i terroristi per alcuni giorni con i nostri aerei, cannoni e droni. A Dio piacendo, li elimineremo presto tutti con i nostri carri armati, artiglieria e soldati».

Guerra, prudenza e povertà

Ci vuole altro per definirla guerra? Eppure le reazioni internazionali ai raid turchi sono state straordinariamente prudenti. Gli Stati Uniti, con il coordinatore per le comunicazioni strategiche, John Kirby: «La Turchia sta affrontando una minaccia terroristica al suo confine meridionale e ha tutto il diritto di difendersi». La Germania, con il ministro dell'Interno Nancy Faeser: «Per quanto comprendiamo la dura lotta contro il terrorismo, le risposte devono essere proporzionate e i civili in particolare devono essere protetti. Faccio appello affinché si prevenga un'escalation della violenza». La Russia, con il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov: «Comprendiamo e rispettiamo le preoccupazioni della Turchia riguardo alla propria sicurezza. Chiediamo ancora a tutte le parti di astenersi da misure che potrebbero portare a una seria destabilizzazione della situazione». E l’Iran: «L’aggressione alla Siria è condannabile, in flagrante violazione delle leggi internazionali». Il tutto mentre ad Astana, la capitale del Kazakistan, si teneva l’ennesimo (e, alla luce di quanto sta accadendo, paradossale) incontro proprio tra Turchia, Russia e Iran proprio per trovare una via d’uscita pacifica alla guerra civile siriana. Vertice che si è concluso con un “rinnovato impegno sulla necessità di preservare la sovranità e l’integrità della Siria”. Parole vuote. Mentre la Siria precipita in una spirale di povertà e di miseria senza pari. Secondo Save the Children «la Siria sta affrontando la peggiore crisi economica dall’inizio della guerra nel 2011, con il 90% dei 18 milioni di abitanti che vivono in povertà. Almeno il 60% della popolazione si trova in condizioni di insicurezza alimentare e la situazione peggiora di giorno in giorno. Questo ha portato all’aumento del numero di bambini malnutriti nel nord-est della Siria di oltre il 150% negli ultimi sei mesi. L’aumento dei prezzi dei generi alimentari, tra il 2019 e il 2021, è stato stimato attorno all’800%, e sono in continua crescita, mentre il reddito medio delle famiglie non è aumentato».

A rendere la situazione ancor più complessa ci sono le reali posizioni in campo, e gli interessi internazionali che gravano sulla Siria. Con la Russia che sostiene, anche militarmente, il regime di Bashar al-Assad. Con la Turchia e l’Iran che contrastano i separatisti curdi, che a loro volta sono in guerra contro Assad e che controllano la regione del nord-est (denominata Rojava, a maggioranza curda, come il sud-est della Turchia) grazie alle Forze Democratiche Siriane (Sdf, composte proprio da milizie del YPG e del PKK). Mentre gli Stati Uniti garantiscono finanziamenti, armi e addestramento militare proprio ai combattenti del YPG, utilizzati dall’occidente come “argine” al dilagare dello Stato Islamico. Per dire: nel budget 2023 proposto dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, sono stati stanziati 542 milioni di dollari per il “fondo di supporto per l’addestramento e l'equipaggiamento di vari gruppi, compreso il gruppo YPG/PKK, con cui gli Usa stanno collaborando in Siria e in Iraq per combattere il gruppo terroristico Daesh”.

Attentato a Istanbul, qualcosa non torna

È evidente che i raid aerei lanciati dalla Turchia in quell’area vastissima che va dal nord-ovest della Siria fino al nord-est dell’Iran, rischiano di provocare un terremoto militare e diplomatico: un drone turco ha colpito “per errore” una base russa vicino a Tell Tamer: il Cremlino ha avvisato che un’offensiva di terra potrebbe provocare un’escalation “nell’intero Medio Oriente” (anche gli Stati Uniti, poche ore fa, hanno sollecitato «un'immediata riduzione dell'escalation nel nord della Siria»). E questo probabilmente spiega l’estrema prudenza delle cancellerie nel commentare, giudicare e (debolmente) condannare l’azione decisa da Erdogan, che come al solito ama giocare con le sue carte e su più tavoli contemporaneamente, anche a rischio di farli saltare, fino a sparigliare le alleanze. L’obiettivo di Ankara è chiaro: vuole impedire il consolidamento dell’area controllata dai curdi in Siria a ridosso della sua frontiera meridionale. E questo con l’abituale pretesto della “sicurezza”, come dimostra la frettolosa (e inverosimile) attribuzione al Pkk della responsabilità per l’attentato di Istanbul del 13 novembre scorso. Un attentato che il Pkk ha risolutamente negato di aver commesso e che stride con la sua più recente “dottrina” di escludere obiettivi civili dalla propria strategia militare. La donna arrestata, Alham Albashir, 23enne, di nazionalità siriana, avrebbe lasciato la borsa con l’ordigno dopo essere rimasta per 40 minuti seduta su una panchina nei pressi del luogo dell’attentato, perfettamente inquadrata dalle telecamere di sorveglianza dei negozi. Poi è tornata nella casa dove abita, nel quartiere di Kucukcekmece, senza nemmeno avere la premura di cambiarsi d’abito. Se di terrorista si tratta, si è dimostrata straordinariamente impreparata e incauta. Peraltro, secondo Ankara il Pkk (fondato nel 1977 da Abdullah Öcalan, condannato all’ergastolo e recluso dal 1998 nel carcere di Imrali, su un’isola disabitata nel Mar di Marmara) è un’organizzazione terroristica, appartenenza “certificata” anche dall’apposito elenco dell’Unione Europea: eppure la stessa Corte di Giustizia Europea, nel 2018, aveva stabilito che in quell’elenco la formazione del Partito dei Lavoratori del Kurdistan era finito “erroneamente” perché il giudizio era stato basato esclusivamente su sentenze dei tribunali turchi. Ma ancora oggi il Pkk è in quella lista.

L’attentato del 13 novembre è stato invece un perfetto assist per Erdogan, che già dalla scorsa estate aveva annunciato imminenti operazioni contro i combattenti curdi in Siria con l’obiettivo di creare una “safe-zone”, proposito che aveva incontrato l’obiezione ferma sia dagli Stati Uniti sia della Russia. I morti di İstiklal Caddesi sono così diventati un pretesto e un‘occasione d’oro per il governo turco: ha potuto invocare, in quanto membro della Nato, il “diritto all’autodifesa contro le minacce alla propria sicurezza”. E può far pesare, sul tavolo delle trattative, il ruolo di mediazione che sempre più sta assumendo la Turchia nella guerra Russa all’Ucraina, con lo sblocco delle esportazioni di grano e l’organizzazione di colloqui segreti tra il Cremlino e la Casa Bianca. Un ruolo talmente delicato che, probabilmente, ha spinto la comunità internazionale a “tollerare” l’operazione Claw-Sword, accolta con un sostanziale silenzio. Senza dimenticare il ruolo di “cerniera” che la Turchia potrebbe svolgere nel progetto di adesione alla Nato di Svezia e Finlandia, un’adesione bloccata da Ankara proprio perché ha accusato i due paesi nordeuropeidi aver offerto ospitalità e protezione a oltre 70 membri del PKK, dei quali pretende l’estradizione. Sul punto, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha ritrovato la voce, invitando Svezia e Finlandia a «rafforzare la cooperazione con la Turchia».

Elezioni a giugno, un pericolo per Erdogan

Ma Erdogan ha tutto l’interesse ad alzare i toni anche in chiave elettorale, con le presidenziali fissate per il 18 giugno 2023: un appuntamento cruciale non soltanto per la Turchia, ma per gli equilibri dell’intera area. La situazione economica interna non è affatto rosea, con un’inflazione ben oltre l’85% su base annua, la lira turca al minimo storico (soltanto nell’ultimo anno ha perso il 50% del suo valore rispetto al dollaro) e una disoccupazione che supera il 10%. Di contro, il tasso di crescita del Pil annuale si attesta al 7,6%. E su questo dato, oltre che sul sempreverde tema della sicurezza (l’uomo forte al comando ha sempre un certo appeal), il Partito Giustizia e Sviluppo (AK) e lo stesso Erdogan puntano per ottenere la riconferma. Ma la strada è in salita: secondo una rilevazione di agosto dell’istituto Metropoll, l’attuale presidente, in cerca del terzo mandato, risulterebbe perdente nel testa a testa con i principali competitor, a partire da Mansur Yavaş, sindaco di Ankara, con il quale ci sarebbe un divario di 16 punti percentuali. Un altro sondaggio di Türkiye Raporu, elaborato a settembre, indica che i voti per il partito AK potrebbero scivolare al minimo storico del 22,2%. Perciò Erdogan, che ama giocare col fuoco, alza la voce e spariglia le carte: per recuperare terreno, sia in patria sia all’estero. Compresa la Siria, lasciando intravedere uno spiraglio di pace, mescolando promesse e avvertimenti: «Dopo le presidenziali di giugno – ha dichiarato la scorsa settimanaErdogan – potremmo rivedere i rapporti con il presidente siriano Bashar al-Assad. In politica non esistono risentimenti eterni».

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