“L'uomo che ha letto, che ha sognato, che conosce la storia della città in cui sta entrando, che ha impregnato di tutte le opinioni di coloro che l'hanno preceduto, porta con sé tutte le sue impressioni pressoché già formate dalla prima all'ultima; sa già ciò che deve amare, ciò che deve disprezzare, ciò che deve ammirare”.
Così scrive Guy de Maupassant nel 1885 di Venezia, mostrando un approccio alla città insulare non poi tanto dissimile da quello che generalmente viene riservato ancora oggi a Venezia, da sempre leggenda di se stessa: tanto difficile abitarla, comprenderla nei suoi ritmi, venirci a patti con misure e tempi, quanto a maggior ragione per questo, cioè per il suo concentrato di peculiarità, per paradosso la più difficile da tradurre sulla pagina.
Lo hanno fatto da sempre in molti, moltissimi, tra scrittori e poeti, e non c’è pretesa di esaustività nell’excursus che qui proponiamo, volendo solo sottolineare intrecci, similarità e differenze che colpiscono per antitesi, per inspiegata somiglianza di fronte a qualcosa di talmente diverso da risultare a tratti fonte di imbarazzo quando si tenta di coglierne l’essenza.
Venezia è sempre la stessa ma mutano le sue atmosfere, la più bella (per chi scrive) è quella tramandata da Carlo Fruttero e Franco Lucentini in quel capolavoro di ironia e stile che è L’amante senza fissa dimora uscito nel 1986 per Mondadori: una guida turistica dal passato sconosciuto e una giovane gallerista incrociano i loro destini in una manciata di giorni tra Castello, il Gritti, Pellestrina e Chioggia, il Lido. Gli autori sanno ben di dover maneggiare un oggetto ultranarrato che rischia a ogni parola lo stereotipo e mettono in bocca alla protagonista queste parole: "Da una fila di gondole che entrava nel Rio dei Greci giunsero accordi di mandolino. Dio Santo - pensai all'improvviso - ma allora, non sarà mica successo tutto per colpa di…? Per il fascino di…? Perché siamo a… ? Impossibile. Per giovanissima e bellissima che mi sentissi, non avevo più, o non avevo ancora, l’età mentale per cedere alle seduzioni di Venezia-la-perla- della-laguna, Venezia-la-città-degli-amanti, Venezia-l'ispiratrice-di-Byron-Browning-Ruskin-Turner-Bonington-Barrès- Mann-D'Annunzio, senza contare Bernard Berenson. Soprattutto, non ero il tipo”.
Nemmeno loro sono i tipi, infatti, e cominciano il romanzo atterrando dall’alto dell’ala di un volo di linea, mai dimentichi di guardarla con ironia e disincanto: “Quando Mr. Silvera si decide infine (look, look, Mr. Silvera!) ad allentare la cintura di sicurezza e a protendersi sopra i suoi vicini per sbirciare dall'oblò, Venezia ormai sparita; non vede che un lontano frammento di mare color alluminio e un immediato, massiccio trapezio d'alluminio, l’ala.“The lagoon!” ripetono i turisti delle comitive che riempiono il volo Z 114. “La lagune! A laguna!...” Come sempre è per loro indispensabile nominare, più che vedere, la città e i templi e le statue e gli affreschi e le cascate e le isole e tutte le terre e le acque che pagano per visitare. Look, look, the Coliseum, the Sixtine Chapel, the Casbah, les Pyramides, le Tour de Pise, the lagoon… Sembrano invocazioni per suscitare cose immaginarie, farle esistere per pochi istanti prima che si ritraggano dal cerchio magico”.
Una decina di anni dopo Paolo Barbaro (al secolo l’ingegnere dell’Enel Ennio Gallo che scriveva sotto pseudonimo dopo aver mandato un suo manoscritto all’Einaudi ed essere stato così il frutto dello scouting di Calvino nientemeno) raccoglie l’invito del Consorzio Venezia Nuova - che ogni anno fa come strenna natalizia un’edizione fuori commercio di un libro sulla città lagunare - e mette sulla pagina Venezia, la città ritrovata pubblicato poi da Marsilio nel 1998. Lì dentro si legge proprio: “L'arrivo a Venezia dovrebbe avvenire dal mare, ha ragione Thomas Mann, ma ora c'è il cielo, milioni di esseri arrivano ogni giorno dalle nuvole. Noi oggi capitiamo al tramonto: fra tremendi strappi di luci sull'acqua, da un orizzonte all'altro. I ragazzi da quella parte dell'aereo, addosso ai giapponesi, brasiliani, americani… Eccola, finalmente. L'apparizione è improvvisa, e tutta intera: la lunga isola rosa, la perfetta forma di pesce immersa-emersa, appena nata per noi”.
Venezia dunque appare, così com’è, a forma di pesce agli occhi di chi la vede dall’alto o su una cartina (Tiziano Scarpa nel 2000 ci ha scritto una guida, Venezia è un pesce, ripubblicata di recente, a vent’anni dalla prima versione, con gli aggiornamenti dovuti al passare del tempo e al mutare dell’occhio che la guarda). Ma com’è, Venezia?
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Potremmo prendere a prestito le parole di Andrea Molesini, celebre narratore veneziano, vincitore nel 2011 del Premio Campiello con Non tutti i bastardi sono di Vienna e autore di molti libri per ragazzi (tra cui proprio Quando ai veneziani crebbe la coda), che in Dove un’ombra sconsolata mi cerca (2019) scrive: “Venezia è un impasto d'acqua, di pietra, di luce e di silenzi, ma non dimenticare, diceva mia madre, che c'è un quinto elemento, il mastice che lega fra loro i primi quattro: la ciàcola. La chiacchiera è quel dire senza scopo che a nostra insaputa, di tanto in tanto, ci regala briciole di saggezza. Scivola nelle osterie, fra i banchi del mercato, nei cortili delle scuole, nelle calli, nei canali tra barche che si incrociano, fra massaie che si scambiano consigli sul bucato, sulla minestra, sugli uomini che si danno alla macchia, che fanno loro le corna o che fanno la guerra”.
Sì, Venezia è indistricabile dal modo che hanno i suoi abitanti, gomito a gomito nelle calli, di comunicare, e quindi dal suo dialetto, portato a lingua letteraria da autori come Carlo Goldoni. Lo scrive anche Barbaro: “La barca è lenta, gli uomini lenti. Maldisposti, sornioni mi sembrano - i miei concittadini, dopotutto. Ce n'è uno con gli occhiali neri, a specchio, poca voglia di fare, ambiguo. Eppure comanda. Il dialetto, o meglio la parlata, mi pare più che mai comica, peggio di quando la sento in tv: frasi strascicate, con quella “calata” che non finisce più; poi improvvisamente sillabe raddoppiate, accelerate (“mi-te-te…, ti ti me vòl”) in un angosciata balbuzie […]Pioggia leggera, si sente appena sull'acqua, gentile, graziosa, goldoniana, tutto quel che vuoi. Però insistente, implacabile: si infila dritta tra coppa e collo, fa disastri nei mobili. Allora arriva la Parola, la parola veneziana tipica, ridicola e tremenda: fatalità”.
E quasi si passassero il testimone, Scarpa nella nuova edizione di Venezia è un pesce spiega: “L’uso di “fataità” in veneziano è particolare. Ricorre nei racconti di avvenimenti spiccioli. Quando si fa un resoconto di un episodio accaduto in giornata, esce fuori quasi immancabilmente la parola “fataità”. Ciò che la rende particolare, giustifica il fatto che io ne stia parlando e la ritenga il vero monumento (non scultoreo ma linguistico) dell'essenza veneziana, è che “fataità” funziona da sola, non è corredata da altre particelle, articoli o preposizioni. “Fataità” traduce l'espressione avverbiale “per caso”. Ma è un nome. Un sostantivo. I veneziani la usano come un ablativo semplice, senza bisogno di altri strumentari o marcatori grammaticali. “Fataità” traduce un po’ il “forte” latino.
Ma quando non la “spiegano” o la raccontano, come entra Venezia nella produzione dei romanzieri contemporanei? Tutti s’accorgono di quanto sia diversa dal resto delle città, evidentemente. E proprio per questo spesso se a scrivere è un veneziano, ma non solo, spesso si tratta di un fondale - anche vivo - ma di cui l’autore non sente il bisogno di dare spiegazione. Ne Il brevetto del geco o Il cipiglio del gufo, per esempio, entrambi di Scarpa e in cui la storia si svolge a Venezia, non c’è enfasi alcuna sull’ambientazione. Così come nelle opere di Giovanni Montanaro, giovane romanziere veneziano, che, per esempio, ne Le ultime lezioni (2019) al più ne cita i luoghi, ma con la naturalezza di un altrove - chi bazzica un po’ Venezia non può non conoscere tra il resto la mitologia costruita attorno alla pasticceria Tonolo -: “Comprai un dolce, una focaccia di Tonolo. Andando verso le Fondamente Nuove, in Calle del Fumo, mi imbattei in un fioraio; senza pensarci, presi anche una rosa per la ragazza. Partito con il vaporetto, ebbi timore che quel regalo fosse sbagliato, non riuscivo a immaginare come sarebbe stato accolto. Smisi presto di arrovellarmi, però: mi convinsi che il gesto era cortese, non poteva risultare sgradito. Mi passò di mente, pensai alla tesi: avrei potuto scrivere un capitolo dedicato alla produzione dell'automobile in Italia. Pensai che a Sant’Erasmo, come Lido, circolavano le macchine. Sbadigliai dalla noia portata dal caldo”.
Così accade anche in romanzi in cui il genere (noir) prevale, e pertanto dei luoghi viene fatto solo rapidamente assaggiare il mood, in funzione della vicenda e del suo intrico di fatti. Come ne Il Turista di Massimo Carlotto (2016): “Dopo la colazione dalla vedova Gianesin e una breve passeggiata lungo Rio Terà San Leonardo, Sambo chiamò la pasticceria dove era stata acquistata la torta. La proprietaria gli disse che era stata ordinata per telefono da una “signora”, ma non ricordava altro. Pietro si infilò in un’osteria appartata in Fondamenta degli Ormesini, frequentata esclusivamente da veneziani, e ordinò un quartino di bianco. Alcuni avventori lo riconobbero e lo sfotterono con un paio di battute velenose ad alta voce”, oppure ne L’estate del cane bambino di Laura Toffanello e Mario Pistacchio (2014) in cui parte della vicenda si svolge e trova soluzione sull’isola di San Servolo, dove è ospitato un centro congressi che fu a lungo tempo il manicomio della città (e un’esposizione permanente fa capire oggi al visitatore di cosa si trattasse, prima della legge Basaglia).
Quando a scrivere sono, seppure grandi-grandissimi, autori stranieri è invece possibile che la descrizione di alcuni dettagli o usanze o atmosfere cittadine venga travisata. Succede pure al magistrale Ian McEwan di Cortesie per gli ospiti (1983), romanzo cupo che racconta l’incontro di due coppie nella città senza nome ma che è evidentemente Venezia, il quale attribuisce alle edicole un ruolo che nella realtà non è poi così “oscuro”: “In tutta la città, all'incrocio delle vie principali, negli angoli delle piazze più frequentate, c'erano piccoli chioschi, costruiti con un certo gusto, che di giorno erano ammantati di giornali e riviste in molte lingue, e di file di cartoline con famose vedute, bambini, animali, e donne che sorridevano se si inclinava la cartolina. Il venditore era seduto all'interno del chiosco, a malapena visibile attraverso una minuscola apertura, praticamente al buio. Era possibile comprare un pacchetto di sigarette senza capire se te lo aveva venduto un uomo o una donna. Il cliente vedeva solo i tipici occhi scuri locali, una mano pallida, e sentiva un borbottio di ringraziamento. I chioschi erano al centro degli intrighi e dei pettegolezzi del quartiere; lì si lasciavano messaggi e pacchetti. Ma se un turista chiedeva la strada, veniva indirizzato con un gesto diffidente alle cartine in vendita, che non erano facili da individuare tra la sfilza di riviste porno”.
Anche il primo dei Notturni del premio Nobel Kazuo Ishiguro (2009), Crooner, è ambientato a Venezia e il protagonista è un suonatore del caffè Florian: tutto ciò serve all’autore per poter creare l’atmosfera sospesa di una serenata notturna su richiesta di un famoso cantante in crisi, ma la città non emerge nella sua particolarità.
C’è anche chi poi, con magistero estremo, la racconta nella sua contraddizione massima: la bellezza e lo sfacelo, il voler essere appartata e l’essere meta prediletta di una fiumana di gente, la sua capacità taumaturgica e il fastidio che provoca. È Iosif Brodskij che in Fondamenta degli incurabili, scritto sempre su invito del Consorzio Venezia Nuova nel 1989 (e poi pubblicato da Adelphi 1991), confessa: “Comunque sia, non verrei mai qui d'estate, neanche sotto la minaccia di una pistola. Sopporto poco il caldo, e ancor meno le violente emissioni di idrocarburi e ascelle. E poi mi danno ai nervi le madri in pantaloncini, specialmente quelle che nitriscono in tedesco: per l'inferiorità della loro anatomia rispetto a quella delle colonne, delle lesene, delle statue; perché la loro mobilità e tutto ciò che essa esprime stride troppo con la stasi del marmo. Devo essere uno di quelli che preferiscono la scelta al flusso, e la pietra è sempre una scelta”.
E quando lui dice che “il pizzo verticale delle facciate veneziane è il più bel disegno che il tempo alias l’acqua abbia lasciato sulla terraferma, in qualsiasi parte del globo” pare ricalcare quello che Nina Berberova ne Il giunco mormorante (1988) chiama “il merletto di pietra dei palazzi annerito dal tempo”. Quest’ultimo romanzo, tutto incentrato sulla no man’s land, sul finale si sposta a Venezia e lì si chiude con il miglior congedo possibile per una città a conti fatti così inafferrabile: “La mattina il vaporetto mi porta alla stazione passando davanti ai palazzi, lungo l'acqua verde del Canal Grande; arrivo al treno all'ultimo istante, il facchino mi spinge sul vagone. Tratto peculiare di Venezia: scomparire in un attimo, non correre dietro al treno, non agitare a destra e a sinistra il capo in cenno di saluto come fanno le altre città quando le lasci - svanire in un solo istante, come se non esistesse, come se non fosse mai esistita”.