Del razzismo in medicina si parla molto, soprattutto negli ultimi anni. Da una parte la comunità scientifica concorda sul fatto che parlare di razza non ha senso a livello genetico, dall'altra ci sono equazioni e procedure che non sono state ancora aggiornate. I motivi di questo ritardo sono molteplici: a volte è complicato, a volte costoso, in rarissimi casi può esserci un colpevole disinteresse, ma è lecito aspettarsi che nei prossimi anni la medicina troverà il modo di procedere nella direzione corretta.
Esemplare è il caso dell'equazione eGFR, che viene usata per stimare la funzionalità renale e stava in realtà penalizzando gli afroamericani, che rischiavano di sembrare più sani di quanto non fossero.
Il GFR (filtrato glomerulare) veniva calcolato tramite un'equazione che prendeva in considerazione variabili come genere, età peso e razza. Perché la razza influiva nel calcolo? Perché per calcolare il GFR si partiva dalla creatinina sierica, una sostanza di scarto che veniva filtrata dal glomerulo: se la presenza di creatinina aumenta, può significare che la funzionalità renale è diminuita, ma siccome i neri hanno, di base, valori di creatinina più alti, la soglia critica per loro veniva appositamente alzata. Così, però, spesso i reni degli afroamericani risultavano più sani di quanto non fossero e questo influiva sulle loro possibilità di ottenere delle diagnosi precoci e anche sulla posizione in lista per i trapianti. Come se non bastasse, i valori più alti di creatinina venivano spiegati secondo l'idea obsoleta che i neri avessero una massa muscolare maggiore, il che implicitamente giustificava lo schiavismo. Il problema è emerso solo nel 2020 durante una lezione all'università di Davies in California, in seguito alla quale si è deciso di costituire una task force universitaria per proporre delle alternative al modificatore di razza. Se Bisrat Woldemichael, studentessa di medicina, non avesse fatto emergere la questione, probabilmente i medici avrebbero continuato con queste procedure senza porsi troppe domande, e per questo Jann Murray-García, membro della task force, è solito dire che l'eGFR è stato il George Floyd degli studenti di medicina: ha messo in discussione un razzismo così insito nelle convenzioni da essere ormai dato per scontato e ora probabilmente i modificatori di razza verranno rivisti anche in altri settori della medicina.
Modificare l'equazione non è stato facile: un conto è dire che i modificatori razziali non hanno senso di esistere, perché a livello di DNA le differenze tra diversi gruppi umani sono estremamente piccole, ma è incontestabile che esistano patologie che sono più frequenti in determinate etnie.
Il problema è che spesso i numeri, presi da soli, portano a inferenze errate. Facciamo un esempio: i numeri ci dicono che in America gli afroamericani si ammalano di più, e più gravemente rispetto ai bianchi (anche il Covid lo ha fatto emergere) . Questo significa forse che sono geneticamente più deboli? O piuttosto per loro è più difficile pagarsi un'assicurazione sanitaria e quindi non vengono curati come i bianchi? O, ancora, che si concentrano in aree geografiche più svantaggiate che li mettono a rischio di contrarre malattie che risparmiano invece i bianchi anche con un reddito pari al loro? Queste differenze, pur non dipendendo dalla genetica, vanno comunque considerate a livello statistico.
Per comprendere meglio la delicatezza del problema abbiamo intervistato Giovanni Destro Bisol, professore di Antropologia e Biodiversità umana all'università La Sapienza di Roma e Dario Gregori, responsabile dell'unità di Biostatistica dell'università di Padova ed esperto di analisi del rischio. Di fatto genetica e statistica si stanno muovendo nella stessa direzione, anche se con ritmi diversi.
Servizio di Anna Cortelazzo e montaggio di Elisa Speronello
"Gli esseri umani - spiega Giovanni Destro Bisol - condividono in media il 99.9% del DNA, quindi non si può parlare di diverse razze, anche perché lo 0.01% che rimane non è distribuito secondo una logica razziale. Informazioni come il colore della pelle, la forma degli occhi e la forma dei capelli definiscono caratteri indipendenti da altri aspetti che possono influenzare, per esempio, il metabolismo. Nessuno nega che ci siano delle differenze tra le persone, ma sono di gran lunga maggiori a livello interindividuale che a livello di qualsiasi categoria creata a priori.
Utilizzare il criterio razziale, non supportato da dati scientifici, è una grande comodità quando dobbiamo, per esempio, scegliere un farmaco, ma è un torto che facciamo alla varietà individuale. Dobbiamo essere prudenti quando applichiamo concetti semplicistici come quelli che derivano da un numero limitato di caratteristiche fisiche di un gruppo, per esempio dal colore della pelle. Succede invece che in determinati gruppi umani che vivono in condizioni di isolamento genetico si possano sviluppare più facilmente malattie ereditarie rispetto a quanto accade in popolazioni cosmopolite, a causa della perdita di diversità genetica. La medicina deve guardare all'individuo, deve inquadrare con precisione l'insieme dei fattori che predispongono o magari proteggono dalle patologie".
Si tratta insomma di trovare degli indicatori più affidabili per caratterizzare le persone. Nel caso dell'eGFR è stata la cistatina C, ma è lecito aspettarsi che, una volta che ci si comincia a porre il problema, i marker verranno fuori anche in tutti gli altri casi in cui sopravvive l'obsoleto criterio razziale. Il problema è che un approccio del genere è costoso e implica un aumento degli esami da effettuare. La conseguenza potrebbe quindi essere quella di aumentare anche le disuguaglianze sulla base del reddito, perché non tutti i sistemi sanitari sono pronti ad apportare questi cambiamenti.
Utilizzare criteri razziali per categorizzare i pazienti a livello genetico come si è fatto in passato non è una strada scientificamente percorribile, anche perché, riflettendoci, sulla base di cosa potremmo dire, per esempio, che un afroamericano è afroamericano? Quanto devono essere ricci i suoi capelli? Possiamo basarci sulla pigmentazione della sua pelle? In passato è stato fatto: la razza veniva definita avvicinando al viso delle matite colorate, e così un ispanico abbronzato con i capelli ricci poteva diventare afroamericano senza colpo ferire. Oggi invece ci si basa su una più politicamente corretta autovalutazione: è afroamericano chi si sente afroamericano e quindi dichiara di esserlo. Un passo avanti verso l'inclusione, forse, ma sicuramente non un criterio valido geneticamente.
L'autovalutazione, però, rimane importante se ci spostiamo nel campo dei modelli che aiutano a prevedere la possibilità di sviluppare determinate malattie e di sopravvivere a esse. "Questi modelli - spiega Dario Gregori, vengono costruiti sulla base di una serie di informazioni per lo più di natura demografica e clinica. In una piccola parte di questi modelli, diciamo nel 10%, la razza viene inserita. Però attenzione: non è per una corrispondenza biologica o genetica: il soggetto dichiara il gruppo in cui si vede collocato con cui spesso condivide caratteristiche legate, per esempio, allo stile di vita". Anche ignorare i fattori etnici, d'altra parte, potrebbe essere rischioso: "Uno dei grossi problemi di alcuni modelli sviluppati negli Stati Uniti negli anni Settanta e Ottanta, soprattutto relativamente al rischio cardiovascolare, erano basati su un campione di persone bianche e mal si applicavano alle popolazioni afroamericane, che ricevevano quindi delle stime sbagliate che non consideravano, per esempio, la disuguaglianza nell'accesso alle cure sanitarie".
La medicina personalizzata, come conferma Gregori, è il futuro della statistica medica. Certo, ci vorrà del tempo, perché aggiornare i modelli e le equazioni come l'eGFR non è un processo semplice e immediato. Quello che però possiamo ottenere oggi sono delle informazioni sempre più precise, che una volta venivano sintetizzate impropriamente sotto categorie più generali, anche razziali, e quindi la statistica si sta già muovendo in questa direzione.