CULTURA

Vivants a Venezia80: un canto d’amore per il proprio lavoro

Lasciamo momentaneamente da parte i film che puntano al Leone d’oro per parlare di uno fuori concorso che ci ha colpito per l’atmosfera che è riuscito a creare e per il messaggio non banale che, secondo noi, è riuscito a trasmettere bene. Questo film è Vivants, della francese Alix Delaporte, che a Venezia aveva già vinto il Leone d'oro per il corto Comment on freine dans une descente? nel 2006.

La storia comincia con la giovane Gabrielle (Alice Isaaz), che vuole ottenere uno stage nel programma televisivo Reporters. Ci riesce grazie all’incontro con Vincent (Roschdy Zem, che quanto a “prezzemolosità” sta alla Francia come Favino all’Italia e che avevamo visto anche a Venezia79 in ben due pellicole), che fin dal primo incontro vede in lei l’intraprendenza e la determinazione necessarie per lavorare per l’emittente e forse anche qualcosa di più. Gabrielle comincia a imparare dalla troupe, facendo i suoi errori e riuscendo poi fortunosamente a portare a casa un servizio su una sfilata di moda. La troupe infatti non è schizzinosa e, soprattutto, deve seguire le capricciose direttive dei vertici del network, che cercano di intercettare le preferenze del pubblico anche quando questo significa fare servizi meno impegnati. Così Gabrielle e compagni passano dal fashion al giornalismo di guerra, passando per un servizio sugli animalisti che nottetempo vanno a liberare i conigli, anche se quello che vorrebbero davvero è sporcarsi le mani, mostrando ai telespettatori anche i bambini uccisi nei conflitti. Tra i membri della troupe si consolida un solido legame, come rileva la regista: “In comune con gli altri film che ho girato - spiega Delaporte - c’è la famiglia. […] Vivants parla della famiglia che costruiamo sul luogo di lavoro, e volevo anche riunire nello stesso film due professioni, quella con cui ho esordito come fotoreporter e la regia”.

Il tema della famiglia, però, non è l’unico, e nemmeno quello centrale. In Vivants si parla di lavoro, e si fa un discorso universale. In questi tempi post pandemici, la narrazione lo concepisce come qualcosa da rifuggire perché ci distoglie da ciò che è davvero importante nella vita (vedi il tema delle grandi dimissioni), come un intollerabile fardello che dobbiamo accollarci per sopravvivere (vedi alla voce quite quitting), o come una passione che si segue quasi per sfizio (“scegli un lavoro che ami e non lavorerai neanche un giorno nella tua vita”). In questo discorso però manca un’altra interpretazione, che vede la possibilità che un lavoro ci definisca come persone. Quello che facciamo ogni giorno può essere una vocazione, qualcosa che si intraprende perché scatta una molla che ti impedirebbe di fare qualsiasi cosa che non sia quello. Delaporte ha ben presente quella voce, quella che ti dice di continuare, semplicemente, perché sì: “Quando ho girato il mio primo cortometraggio – racconta - l’ho sentito: avevo trovato il mio posto. Questo è il messaggio che voglio far passare attraverso il personaggio di Gabrielle: nonostante le deviazioni dal percorso, le nostre esperienze sono importanti quasi quanto l’obiettivo che raggiungiamo, o che desideriamo raggiungere”.

Uno dei rimproveri fatti a Vivants è quello di non aver indagato a sufficienza la psicologia dei personaggi. Per certi versi è vero: i membri della troupe hanno un proprio carattere tratteggiato solo a livello superficiale, e le loro storie personali sono sicuramente molto simili. Passano attraverso divorzi, figli trascurati, crisi di coppia e la totale assenza di altri legami, esclusi quelli con i colleghi. A tutti quelli che in un film cercano l’introspezione, ci sentiamo di sconsigliare la visione. Questa scarsa analisi interiore, però, è funzionale al messaggio di cui parlava Delaporte: al posto di un personaggio cinico e spigoloso, potrebbe benissimo essercene uno più umano e con un differente umorismo, perché il carattere del singolo non è quello che importa. In comune quei due personaggi dovranno però avere quel classico sacro fuoco che ti spinge ad alzarti la mattina con cinque ore di sonno alle spalle, senza calcolare i figli e il partner, per precipitarsi in redazione, o in qualunque altro posto, e affrontare una nuova storia, per raccontare la verità a chi è interessato a scoprirla (sempre meno persone, perché, come ci ricordano i vertici del network, i telespettatori non vogliono più vedere il sangue, la violenza e le verità scomode). E se quella verità ti porta con una gamba distrutta in un ospedale in cui non possono operarti, poco male: appena ti faranno uscire tu tornerai lì, al tuo lavoro, dalla tua famiglia, perché non puoi, e forse nemmeno vuoi, fare altrimenti.

L’atteggiamento dei personaggi non appare come una loro scelta, e non è un sacrificio potenzialmente stigmatizzabile in un momento storico in cui, giustamente, ci si concentra sui diritti e sul benessere dei lavoratori. Quello che il film trasmette è la sensazione, non sempre positiva, di trovarsi nel luogo a cui il fato, o qualunque cosa in cui si creda, ti ha destinato, perché siamo nati per fare quel lavoro, ci definisce, ci dà uno scopo, e non potremmo fare diversamente, anche se dall’altra parte non ci fosse nessuno a pagarci. Non c’è giudizio, non c’è rivendicazione, rimane soltanto la passione, o un imperscrutabile destino, che ti spinge a uscire in strada con una telecamera anche quando hai appena saputo che ti hanno cancellato il programma. Esci perché gli animalisti hanno liberato una giraffa, che sta girando indisturbata per Parigi. Esci perché “beh, l’importante è esserci”, come fa notare il reporter claudicante, perché devi riuscire a riprenderla di fronte, senza nessuna garanzia di riuscirci, con una punta di paura perché non è detto che la testardaggine e la tua forza di volontà saranno sufficienti, se non riuscirai a trovare un luogo adatto per essere alla stessa altezza della giraffa.

Vivants non è la storia dei suoi personaggi, è una dichiarazione d’amore al proprio lavoro. È un film che ci ricorda che esistono persone che da quel lavoro sono definite, che sotto sotto non hanno bisogno d’altro, anche se a volte si affaccia il pensiero di aver rinunciato agli affetti e forse ci si chiede se ne sia valsa la pena. Ma la risposta, neanche troppo implicita, è sì: gli affetti sono aleatori, possono tradirci da un momento all’altro, mentre abbiamo la sicurezza che ogni giorno ci sarà una nuova storia da raccontare. Magari non si può sapere su che canale finirà, se incontrerà il gusto del pubblico di massa, pronto a foraggiare l’emittente grazie agli sponsor e alla pubblicità, ma di sicuro ci sarà qualcuno, da qualche parte nel mondo, che quella storia la vorrà ascoltare. E questo basta.

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