“Se può votare il mio portinaio, non vedo perché non debba andarci anch’io”. Aveva le idee chiare la poetessa Ada Negri, che nel 1904 liquidò così il dibattito sull’estensione del voto alle donne: erano gli anni in cui gli echi delle rivendicazioni suffragiste nel Regno Unito provocavano anche in Italia un confronto vivace, promosso da associazioni come l’Unione Femminile, nata a Milano pochi anni prima e di cui la Negri era tra le fondatrici. Ma non era tempo: le italiane dovranno attendere il 1946, l’anno della nascita della Repubblica, per diventare elettrici ed eleggibili. Certo, era un’aspirazione che le donne avevano già tentato di imporre all’attenzione dell’opinione pubblica fin dalla nascita del Regno d’Italia, con petizioni alle Camere e voti parlamentari mai sfociati in provvedimenti con forza di legge. In realtà un ampliamento alle donne dell’elettorato attivo e passivo per le elezioni amministrative, con fortissime limitazioni, venne approvato durante il fascismo, nel 1925: ma fu subito neutralizzato dall’abolizione delle cariche elettive negli enti locali. Perché i tempi fossero maturi si è dovuto attendere l’epoca del secondo conflitto mondiale, quando, nel ’44, sorgono e si rafforzano nuove associazioni femminili portatrici di istanze di riforma, tra cui l’Unione Donne Italiane, vicina al Pci, che raggruppa diversi movimenti di donne impegnate nella Resistenza, e il Centro Italiano Femminile, di matrice cattolica.
Mentre si avvicina la Liberazione, le crescenti pressioni per l’estensione del voto producono finalmente un grande risultato. A fine gennaio del 1945, su sollecitazione di De Gasperi e Togliatti, il governo Bonomi approva il decreto legislativo luogotenenziale 23, che porta la data del primo febbraio e ha come titolo “Estensione alle donne del diritto di voto”. Il decreto, ampliando l’elettorato attivo alle donne con 21 anni compiuti, ordina la predisposizione di liste elettorali femminili in tutti i Comuni, in vista delle elezioni amministrative dell’anno successivo. Ma il provvedimento non menziona, per le donne, il parallelo diritto all’eleggibilità. Occorre quindi sanare in extremis questa lacuna con un nuovo decreto luogotenenziale, quello del 10 marzo 1946, che detta le norme per l’elezione dell’Assemblea Costituente: vi si legge finalmente che sono eleggibili “i cittadini e cittadine italiane” (per la Consulta il limite di età per essere eletti è di 25 anni compiuti). E proprio il 10 marzo ha luogo la prima delle votazioni per le elezioni amministrative che, tra primavera e autunno, si tengono in tutta Italia per ricostituire gli organi elettivi locali. Per la prima volta le donne possono votare ed essere votate.
Ma per le donne l’appuntamento decisivo è quello delle consultazioni politiche: il 2 giugno vengono chiamate in massa a esprimersi sul referendum monarchia-repubblica e sull’elezione dell’Assemblea Costituente. Il giorno del voto, il Corriere della sera si premura di dare un consiglio alle neoelettrici: “Al seggio meglio andare senza rossetto sulle labbra. Siccome la scheda deve essere incollata e non deve avere alcun segno di riconoscimento, le donne nell’umettare con le labbra il lembo da incollare potrebbero, senza volerlo, lasciarvi un po’ di rossetto e in questo caso rendere nullo il loro voto”.
Per la Consulta risultano eletti 556 rappresentanti del popolo: le donne sono 21, di cui 5 (Maria Federici, Lina Merlin, Teresa Noce, Nilde Iotti, Angela Gotelli) saranno tra i 75 membri della commissione che avrà il compito di preparare il progetto della nuova Costituzione, che sancirà in più passi la parità tra uomo e donna.
Una tappa, dunque, fondamentale e irreversibile. Ma la strada della piena uguaglianza sostanziale sul piano politico non sarà breve. Alle elezioni politiche del 1948, le prime dopo l’entrata in vigore della Costituzione, le donne elette alla Camera saranno 45, e al Senato appena 4. Per vedere la prima donna ministro, Tina Anselmi, dovremo attendere il 1976, mentre toccherà a Nilde Iotti, nel 1979, la prima presidenza femminile della Camera.