Scienza e Ricerca

24 Agosto 2017

Uno scanner tridimensionale per migliorare la lotta contro i tumori

È trascorso un anno da quando sono iniziati i lavori e i primi test stanno dando esiti positivi. A portare avanti il progetto iMPACT (innovative Medical Protons Achromatic Calorimeter and Tracker), finanziato dall’European Research Council con 1,8 milioni di euro, sono l'università di Padova e l'Istituto nazionale di fisica nucleare: l’obiettivo è di realizzare entro il 2020 uno scanner a protoni da utilizzare nella terapia di alcuni tipi di tumori. Il nuovo strumento permetterà di acquisire immagini tridimensionali del paziente in maniera specificamente mirata per l’adroterapia, migliorando le performance mediche e riducendo gli effetti collaterali rispetto alle tecniche tradizionalmente impiegate, come la TAC (Tomografia Assiale Computerizzata).

Il progetto aggiunge un tassello ancora mancante alla strumentazione oggi disponibile nella cura del cancro con adroterapia. È, quest’ultimo, un particolare tipo di radioterapia che impiega protoni o ioni carbonio al posto dei tradizionali raggi X, e che viene utilizzato in caso di tumori in sedi difficili, con strutture circostanti molto delicate come i cordomi e i condrosarcomi della base del cranio, o particolarmente resistenti alle radiazioni convenzionali. Inserita recentemente nei Lea (livelli essenziali di assistenza), l’adroterapia va a colpire il tumore in modo mirato e preciso, minimizzando i danni ai tessuti circostanti.

Al momento, tuttavia, c’è un limite pratico all’impiego di questa tecnica. Per mirare bene a un bersaglio è necessario averne una buona immagine. Attualmente, per individuare la posizione esatta del tumore, si esegue una TAC del paziente. Si impiega cioè un fascio di fotoni, di raggi X, i quali identificano con chiarezza tessuti densi, come le ossa o lo stesso tumore, ma non riescono a discernere con adeguata precisione la densità dei tessuti molli. Nel trattamento adroterapico è invece di fondamentale importanza conoscere esattamente la densità di ogni tessuto lungo la traiettoria che porta al tumore: ciò permette di calibrare con precisione l’energia dei protoni, attenuata dai tessuti attraversati in ragione appunto della loro densità, e quindi di colpire con accuratezza le sole cellule tumorali.

Serve dunque ottenere un’immagine di qualità superiore dei tessuti che circondano la massa tumorale rispetto a quanto si ottiene con le tecniche tradizionali. Il margine di errore dovuto alla scarsa precisione nel ricostruire la densità dei tessuti, dell’ordine del 5%, risulta a tutt’oggi il maggior limite al pieno sfruttamento dell’accuratezza di trattamento teoricamente permessa dalla tecnica adroterapica.

L’obiettivo del progetto è riuscire a ottenere un’immagine tridimensionale (come avviene con una TAC) impiegando, al posto dei fotoni, gli stessi protoni usati per il trattamento del tumore. Implementare una tecnologia simile, porta con sé vantaggi di non poco conto. Innanzi tutto, utilizzando i protoni al posto dei fotoni, si possono ottenere immagini caratterizzate da un ottimo discernimento della densità di tessuti, eliminando così questo errore dalla successiva fase di trattamento.  Inoltre, sempre grazie all’utilizzo dei protoni, nel registrare un’immagine tridimensionale si sottopone il paziente ad una dose di radiazione che è circa 1/50 rispetto a quella di una TAC equivalente, riducendo di molto il danno collaterale dovuto a indagini diagnostiche di questo tipo. Infine, diviene possibile sfruttare la medesima apparecchiatura impiegata per il trattamento del tumore anche nella fase di imaging diagnostico, consentendo così di ottimizzare l’intero processo di diagnosi e cura per certi tipi di tumori. 

Il prototipo testato a Trento

In tutto il mondo esistono al momento quattro, cinque gruppi di ricerca che lavorano per arrivare a questi risultati, ma le difficoltà non mancano. Per ottenere un’immagine tridimensionale di un paziente con la precisione voluta, bisogna infatti farlo attraversare da circa un miliardo di protoni, e per ogni singola particella serve effettuare cinque misure di precisione (il punto in cui ogni protone entra, il punto in cui esce, l’angolo con cui entra, l’angolo con cui esce e l’energia con cui esce dal bersaglio) dato che, a differenza dei raggi X, i protoni cambiano direzione quando attraversano un oggetto. Al momento non si è ancora riusciti a raccogliere questi dati in un tempo ragionevole per l’applicazione medica della tecnica e questa è la sfida principale. Ad oggi non si riesce infatti a completare l’operazione in meno di 30 minuti, e ovviamente solo su fantocci, perché rimanere immobile per un tale periodo di tempo, idealmente senza respirare, è chiaramente impossibile per un paziente umano. Sarebbe necessario mantenersi almeno sotto al minuto, ma l’obiettivo è di raggiungere i 10 secondi, un intervallo nel quale il paziente può ragionevolmente rimanere immobilizzato, anche senza respirare.

Ciò a cui si spera di arrivare al termine del progetto è quindi un nuovo strumento di imaging tridimensionale, che consenta di tracciare un miliardo di protoni in pochi secondi. Nel mese di luglio sono stati condotti dei test preliminari sul primo prototipo costruito, utilizzando la sala sperimentale allestita al Tifpa-Trento Institute for Fundamentals Physics Applications, nel centro di protonterapia dell’ATreP-Agenzia provinciale per la protonterapia di Trento: si è così potuto verificare l’apparato utilizzando esattamente lo stesso fascio di protoni quotidianamente impiegato per la terapia. I risultati sono stati molto promettenti, confermando le prime ipotesi: questo permetterà di proseguire il progetto secondo i piani iniziali e di continuare lo sviluppo del prototipo con la speranza di arrivare a un sistema di tomografia computerizzata realmente utilizzabile in campo clinico.

Piero Giubilato

Monica Panetto