SOCIETÀ

Artigianato high-tech: un futuro italiano

Nel weekend scorso si è tenuta a Roma, la Maker Faire, appuntamento che chiama a raccolta i makers, gli artigiani high-tech di oggi e del prossimo futuro. La fiera è una bella occasione per vedere da vicino l'evoluzione di questo fenomeno che, nato negli Stati Uniti, sta conoscendo una rapida crescita anche nel nostro paese. Crescita testimoniata dal fatto che quella di Roma, pur essendo solo alla seconda edizione, è oggi la Maker Faire più importante al mondo dopo quella di New York. 

La visita ai padiglioni restituisce un'immagine tutt'altro che rassegnata dell'Italia. Attraverso gli occhi dei makers vediamo un Paese che non sta con le mani in mano ma che prova a conquistarsi un pezzo di futuro costruendo oggetti innovativi. L'origine di questa autentica "passione per il fare" nasce in luoghi imprevisti, nell'underground dei garage e delle cantine, sicuramente non in think tank esclusivi. Se dovessimo utilizzare una metafora musicale potremmo dire che l'energia che trasmette il movimento dei makers assomiglia molto a quella del Punk, voglia di rompere gli schemi compresa. Un approccio iconoclasta che talvolta rischia di essere un po' caotico, quasi dissipativo, sicuramente mai noioso. 

Difficile in questo contesto provare ad offrire un catalogo esaustivo dei moltissimi progetti presenti. Senza soluzioni di continuità si passa dalla tecnologia del robot cingolato progettato da Fabio Cottefoglie di Algorithmica per ispezionare le catacombe e costruirne una accurata rappresentazione 3D consentendo agli esperti di valutare lo stato del sito archeologico e capire dove intervenire, fino ad arrivare al progetto poetico delle scarpe, progettate da Troy Robert Nachtigall, che grazie a particolari sensori tessuti nella soletta sono in grado di riconoscere l'umore di chi le indossa e se percepiscono dal tipo di camminata uno stato un po' depresso emettono delle lucine per far sorridere l'utilizzatore e attrarre l'attenzione dei passanti. In mezzo c'è di tutto: giochi per bambini, robot, stampanti 3D che producono qualsiasi oggetto, rover, elicotteri, circuiti stampati. 

Pur di fronte a questa Bazaar innovativo, è possibile identificare qualche filo conduttore. Camminando tra gli stand della Maker Faire, ci si accorge quanto i maker nostrani stiano mettendo in campo capacità molto originali nel modo in cui pensano e realizzano i progetti. Proviamo a delineare quali sono questi elementi che rendono un po' diversi i maker italiani dai loro cugini americani. 

Il primo punto è sicuramente la convergenza tra la cultura dei maker e quella degli artigiani tradizionali. Uno degli esempi più interessanti è Lino's Type, un progetto guidato da Nicola Zago (laureato in Comunicazione a Padova) e Stefano Schiavo che sono stati capaci di coniugare la grande esperienza tipografica di Lino, in pensione ma ancora con gran voglia di fare, con la creatività di giovani grafici appassionati alla stampa 3D. I giovani creano il progetto grafico, realizzano il cliché con la stampante 3D e poi si affidano all'esperienza di Lino Aldà, 43 anni passati in tipografia, per stampare con la gloriosa Heidelberg del secolo scorso. Chi ha tra le mani una stampa di Lino's Type si rende immediatamente conto della qualità che questo incontro tra giovani makers ed esperti artigiani è in grado di generare. Il Futuro Artigiano di cui ci ha parlato Stefano Micelli non ci è mai sembrato così vicino. 

Il secondo riguarda la crescente importanza del design. Si tratta di una vera novità. Il mondo dei makers ha spesso trascurato l'aspetto estetico, preferendo dedicare più attenzione alla pura tecnologia. Diversi progetti presenti in fiera dimostrano quanto la sensibilità verso questo aspetto sia aumentata. Uno tra quelli più interessanti è la Cucina Leggera realizzata dal designer Stefano Carta Vasconcellos che ha progettato una cucina compatta, funzionale e dall'estetica innovativa. Le logiche di produzione sono quelle tipiche dei makers: il progetto è open source, lo si può scaricare liberamente dal sito, personalizzare e farselo produrre dalla falegnameria più vicina a casa. Il risultato è una cucina facile da montare (non servono viti e non ci si mette più di 30 minuti) ma che non sfigurerebbe in un loft di New York. Il terzo ha a che fare con la personalizzazione. Molti dei maker nostrani stanno dimostrando una grande attenzione verso chi dovrà utilizzare la tecnologia, costruendo macchine personalizzate. Come DWS, azienda fondata da Maurizio Costabeber, che realizza macchine per la manifattura digitale (stampanti 3D e stereolitografia) pensate in modo specifico per il mondo dell'oreficeria e per la dentistica. Proprio questa attenzione ai contesti di applicazione ha portato la DWS a sviluppare la tecnologia più precisa al mondo per la stampa di piccoli oggetti. 

Sintetizzando potremmo dire che è una Maker Faire che parla sempre più italiano, nel senso più buono del termine. I makers presenti a Roma dimostrano di essere più propensi ad investire sui contenuti culturali, e non solo tecnologici, dei loro progetti. L'attenzione alla qualità estetica e al contesto d'uso del prodotto sono i primi segni di un approccio più umanistico all'innovazione. 

Si tratta di un dato incoraggiante. Ci consente di guardare con maggiore fiducia al futuro, consapevoli della possibilità di poter essere ancora protagonisti a livello internazionale facendo leva sulla qualità italiano. Allo stesso tempo possiamo trarre preziose indicazioni sulla direzione che le nostre imprese più tradizionali deve compiere per rinnovarsi. Tutte buone ragioni per essere sicuri che tra i banchetti della fiera ci siano molti di quelli che in futuro potranno essere i campioni del made in Italy.

Marco Bettiol

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