SOCIETÀ

L’Europa unita frenata dalla paura

Chi vede l’Europa come un’utopia farebbe meglio a risvegliarsi perché un sonno troppo profondo gli impedisce di osservare la realtà. Con un provocatorio ribaltamento dei luoghi comuni che circondano l’idea di Europa – visione utopica per alcuni, impresa solo economica per altri – Barbara Spinelli ha iniziato qualche giorno fa la sua lectio magistralis all’università di Padova. Ma l’editorialista di Repubblica ed erede di Altiero, autore del Manifesto di Ventotene e fondatore del movimento federalista europeo, non si è fermata qui, disegnando lo scenario di un’Europa che deve cambiare pelle per non perdere l’ultima occasione di una riforma dal basso. A respingere l’idea che si possa continuare nella costruzione dell’Unione come si è fatto sinora, facendo diligentemente i compiti a casa prima di guardare oltreconfine, basterebbe infatti la dimensione globale dei problemi da affrontare: “la finanza mondiale, il conflitto tra monete, i cambiamenti climatici, le guerre, le convivenze tra religioni diverse”. Senza dimenticare l’emergere dei Brics (Brasile-Russia-India-Cina-Sudafrica), che reclamano la loro fetta di torta attraverso una diversa distribuzione delle risorse. La crisi iniziata nel 2007 svela semplicemente quello che già era chiaro ai fondatori dell’Unione: la fine dei classici Stati nazione. In questo quadro anche “il debito non è più sovrano” e misure come il Fiscal Compact, con il quale l’Italia si è impegnata a raggiungere e a mantenere il pareggio di bilancio, denunciano di fatto lo scavalcamento della sovranità popolare in nome di convenzioni transnazionali.

Un contesto nel quale solo l’unità politica tra europei – “la via più realistica e pragmatica” e assieme la più  promettente per la Spinelli – potrebbe garantire un recupero di sovranità. Se non fosse che l’Europa è letteralmente scomparsa dall’agenda politica dei partiti, e non solo dalle nostre parti. L’idea di un’Europa federale, che passa dall’edificazione di un potere sovranazionale e di un Parlamento che possa controllarlo ed eleggerne i rappresentanti, viene bollata come astratta e fallimentare. In apparente contrasto con alcuni dati concreti: nella storia dell’Unione “solo 8 sono stati i referendum sull’integrazione europea dall’esito negativo contro le 24 vittorie del sì. Guardando alla moneta, solo il 2% dei cittadini (in Italia l’1%) vuole abbandonare l’euro”. E l’eurobarometro 2013 manda segnali contraddittori. Certo evidenzia il fatto che solo una minoranza, il 36%, conosce i propri diritti di cittadino Ue, ma conta un 67% di europei (diventano il 73% in Italia) che riconosce i vantaggi legati alla libertà di circolazione. Abbastanza per lasciare spazi di manovra e suggerire un rilancio dell’azione europea.

È qui che entrano in gioco gli “euroscettici”, un’etichetta dietro la quale si nascondono quanti sono interessati alla difesa dello status quo, coltivando l’ignoranza dei cittadini e facendo ricorso all’illusione. “I veri populisti – accusa la Spinelli – gli ingannatori di popoli” oggi usano la retorica della difesa della democrazia e del recupero della sovranità sul piano nazionale”. Di fatto sono i difensori di un ordine vecchio, già superato dagli eventi, che sostengono con l’antica arma della partigianeria. Il terreno di coltura ideale per i movimenti nazionalisti e per le destre xenofobe che si sono affermate sempre più in tempo di crisi, dal Front National francese e dal partito Fidesz di Viktor Orbán in Ungheria fino ad Alba dorata, in Grecia.

“Non metterei il movimento di Grillo – dice Barbara Spinelli – assieme alle destre xenofobe. Con tutti i suoi errori e la sua scarsa capacità di concludere, l’azione politica del movimento passa comunque dalle istituzioni. Non lo definirei né populista né antieuropeista. Perché in fondo quello che chiede è un’altra Europa, a partire dalla constatazione che due o tre generazioni sono rimaste fuori gioco.” 

Nello scontro con i “conservatori” quello che sembra mancare agli innovatori è soprattutto lo slancio: “tepidezza, incredulità e paura” impediscono di fatto la nascita di una nuova Europa. E l’orizzonte politico della vecchia sembra riposare nelle parole che Mario Draghi ha pronunciato due settimane dopo il voto italiano. Incalzato sul tema delle politiche strutturali e delle possibili opzioni del nuovo  – oggi futuribile – esecutivo, il governatore della Bce aveva commentato: "È molto importante, perché scenderebbero gli spread, si avrebbero tassi sui prestiti più bassi e quindi più crescita e più creazione di posti di lavoro. Ma sul rigore di bilancio molti dei processi di risanamento continueranno ad andare avanti con il pilota automatico”. Sempre che il “drone senza pilota umano non vada a schiantarsi creando gravi crisi umanitarie come in Grecia, dove in soli tre anni si è tornati alla situazione di cinquant’anni fa”, replica a distanza la Spinelli.

“Non contentarsi dell’ibrido velenoso” rappresentato da quest’Europa, è un atto di autentico scetticismo, che non dà credito all’apparenza né conosce pregiudizi: un potente antidoto alle chimere evocate dagli euroscettici. E assieme lo spirito giusto per guardare alle evidenze dei dati sull’economia europea e mondiale. Come al rapporto che Bertelsmann Stiftung ha appena pubblicato analizzando la giustizia sociale intergenerazionale all’interno dell’Ocse. Tra i molti Paesi che mantengono l’attuale livello di benessere e prosperità a spese delle generazioni future si scoprono infatti vicinanze insospettabili: se un ragazzo estone di 15 anni riceve in eredità 4.600 euro di debito pubblico, un suo coetaneo tedesco si trova a dover portare il peso di 192.000 euro di debito, non molto distante dalle maglie nere d’Europa, Grecia (215.000 euro) e Italia (222.000 euro). Basta uno sguardo agli studi sull’interdipendenza tra le economie mondiali, pubblicati dalla fondazione tedesca sul finire del 2012, per leggere l’impossibilità di circoscrivere gli effetti di un’uscita dall’euro delle sue economie più deboli (Grecia, Portogallo, Spagna e Italia): una perdita stimata di 17.157 miliardi di euro di pil per le 42 maggiori economie mondiali e una crisi senza precedenti.

Il federalista inglese John Robert Seeley, nel sostenere le ragioni degli Stati Uniti d’Europa di fronte ai membri della Peace Society nel 1871, pensava a come evitare le guerre future attraverso il disegno di una nuova Europa. ”Quando accettiamo di essere schiacciati dal peso di ciò che dobbiamo rimuovere, teniamo sufficientemente conto delle leve che abbiamo a disposizione?” si chiedeva. A distanza sembra rispondergli Pessoa, poeta portoghese lontanissimo dall’esperienza di Seeley: “Tutto vale la pena, se l’anima non è piccola”. 

Carlo Calore

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